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mercoledì 21 dicembre 2011

SARA' RECESSIONE E SARA' GRAVE

 

di Sergio de Nardis 15.12.2011

Le regole europee impongono deflazione nei paesi squilibrati e i programmi di austerità la realizzano. L'applicazione di stime Fmi al consolidamento fiscale italiano mostra che l'assenza del cambio e la simultaneità dell'aggiustamento europeo rendono molto più gravoso l'impatto recessivo rispetto all'esperienza del 1992, quando si adottò una manovra simile. Solo un intervento della Bce, volto a sradicare le aspettative sfavorevoli dei mercati, orienterebbe in senso positivo un percorso altrimenti autodistruttivo. 
L’interrogarsi sull’impatto più o meno depressivo della manovra di finanza pubblica ha qualcosa di curioso. Sembra sfuggire che la manovra deve essere recessiva. Se non lo fosse o se, grazie a una magia delle aspettative, avesse addirittura effetti espansivi sulla domanda per consumi e investimenti sarebbe un problema. Si dovrebbero mettere in campo nuove misure fiscali di restrizione. Non è un paradosso. È il meccanismo di riequilibrio vigente nell’euro che comanda recessione. L’aggiustamento degli squilibri intra-area è esclusivamente a carico dei paesi in deficit di competitività e indebitati. E si deve espletare attraverso la contrazione della loro domanda interna e l’abbassamento delle dinamiche di prezzi e salari sotto quelle dei paesi “virtuosi”. Null’altro viene prescritto, men che meno per le economie in surplus che sono state concausa degli sbilanci intra-area. (1) Perché si fatica a prenderne atto? L’applicazione della regola europea, ribadita al vertice del 9 dicembre col progetto di una Unione fiscale di stabilità, si incardina su politiche deflative.

L'AMPIEZZA DELLA RECESSIONE

Se recessione da austerità ha da essere, la determinazione di quanto sarà profonda è, tuttavia, soggetta a un alto grado di incertezza per la situazione senza precedenti in cui ci si trova. Francesco Daveri,  propone un interessante confronto con l’altra grande manovra adottata dall’Italia un ventennio fa, quella di Giuliano Amato del settembre 1992 che fu di portata comparabile, nei valori assoluti attualizzati, con quelle cumulatesi dalla scorsa estate. Ma a parte la consonanza di cifre, sussistono differenze rispetto ad allora. Due sono fondamentali: non abbiamo più a disposizione il cambio, che nel 1992-93 si svalutò fortemente sostenendo le esportazioni; non siamo gli unici a stringere in Europa, anzi ci si trova nella pericolosa condizione, imposta dalle regole europee, di una deflazione praticamente coordinata, senza alcuna compensazione di stimolo altrove nell’area.
Per cercare di avere ordini di grandezza dei possibili effetti, tenendo conto delle differenze rispetto al 1992, si può ricorrere alle stime dell'Fmi che ha studiato oltre 170 episodi di aggiustamento fiscale di 17 paesi avanzati nel periodo 1980-2009. (2)La domanda a cui risponde il Fondo è: quanto è stato, in media nel panel esaminato, l’effetto sul Pil reale di una correzione di bilancio pari all’1 per cento di prodotto interno lordo? L'Fmi fornisce, quindi, delle elasticità di risposta che possono essere utilmente applicate al caso del consolidamento italiano. Procedendo in questo modo si suppone che il Pil dell’Italia reagirà nei prossimi anni all’azione di contenimento della finanza pubblica in modo simile a quanto si è osservato, in media, nelle 17 economie durante l’ultimo trentennio. (3)
La tabella 1 mostra nelle prime righe il valore delle manovre di riduzione dell’indebitamento netto della Pa decise tra luglio e dicembre (le due di Berlusconi e quella di Monti). L’aggiustamento, del 4,8 per cento a regime nel 2014, si modula in correzioni del 3 per cento il prossimo anno, dell’1,6 per cento nel 2013 e dello 0,3 per cento nel 2014. Applicando le elasticità stimate dall'Fmi nella simulazione base (caso A), l’effetto sul Pil italiano è di una perdita cumulata di 2,7 punti percentuali nel periodo 2012-14, concentrata nel 2012 e nel 2013 (quasi 1 punto all’anno) quando maggiore sarà lo sforzo di consolidamento. (4) Tali valutazioni sembrano compatibili con il limite minimo dell’impatto stimato in audizione dal Governatore di Banca d’Italia con riferimento alla sola manovra Monti (ammontante all’1,3 per cento del Pil): almeno lo 0,5 per cento di Pil in meno nell’arco del biennio 2012-13. (5)SE NON SI PUÒ AGIRE SUL CAMBIO

Ma è questo il caso rilevante per la situazione italiana? Forse per l’Italia del 1992-93, non per quella di oggi. Le simulazioni dell'Fmi includono esperienze di consolidamento fiscale tipicamente accompagnate da stimolo monetario e deprezzamento del cambio. Il primo ha consentito di contenere la flessione della domanda interna, il secondo ha sospinto le esportazioni nette. Entrambi questi canali di compensazione sono, però, assenti nelle attuali condizioni. Sul fronte dei tassi d’interesse, la politica monetaria ha perso efficacia nella trasmissione degli stimoli al sistema bancario e il rischio più che concreto è semmai quello di un credit crunch che si sommerebbe alla restrizione fiscale. Per il cambio, la svalutazione non può avere luogo per la porzione di interscambio dell’Italia (45 per cento) intrattenuta con i paesi euro, che è quella rilevante per il riequilibrio all’interno dell’area.
Sembrano quindi più vicine all’odierna situazione italiana le elasticità stimate dall'Fmi in assenza di deprezzamento del cambio (e senza, quindi, risposta delle esportazioni nette). Adottando queste valutazioni, il costo del consolidamento fiscale dell’Italia in termini di minore output si amplifica sensibilmente, risultando pari a poco meno di 5 punti percentuali nell’arco del triennio 2012-14; la flessione sarebbe più consistente nel prossimo biennio (-2 per cento all’anno nel 2012-13) e tenderebbe a estendersi al 2014. L’assenza della svalutazione ha dunque un’influenza fondamentale nell’inasprire l’impatto del consolidamento: solo per questo motivo ci si può attendere un’incidenza sul Pil all’incirca doppia rispetto a quanto sperimentato venti anni fa.
Ma anche tali quantificazioni non vanno del tutto bene. Non considerano il fatto che l’Italia non è sola nell’implementare severe misure di risanamento. L’austerità fiscale è perseguita praticamente dappertutto in Europa, anche dalla Germania. Gli effetti sul Pil quando molti paesi adottano contemporaneamente provvedimenti di austerità si accrescono. E ciò è particolarmente vero nel caso europeo dove gli intensi legami commerciali non fanno che amplificare la trasmissione tra le economie di interventi simultanei volti a comprimere le domande nazionali. Ma anche la possibilità di dolorose “svalutazioni interne” viene a essere preclusa nell’attuale contesto europeo: è impossibile che tutti i paesi riescano ad abbassare, allo stesso tempo e nella misura necessaria per il riequilibrio, i loro prezzi e costi rispetto a tutti gli altri partner.
Le simulazioni dell'Fmi, ottenute con una metodologia diversa dalle precedenti, consentono di avere un’idea dell’inasprimento dell’impatto restrittivo di azioni simultanee. (6) Delle varianti analizzate dal Fondo si considera quella in cui l’autorità monetaria non ha spazi per stimoli monetari, più vicina all’attuale condizione europea. Applicando le stime di elasticità al consolidamento italiano (caso C) la perdita di prodotto conseguente all’austerità fiscale si commisurerebbe in circa 8 punti percentuali nel prossimo triennio, con una caduta più forte concentrata nel biennio 2012-13 seguita da un parziale rimbalzo. È possibile che questo effetto risulti sovrastimato nella situazione italiana per il fatto che altrove, fuori dall’Europa, la corsa al consolidamento fiscale non è la regola. Tuttavia è lecito attendersi dalla simultaneità degli aggiustamenti europei un sostanziale rafforzamento dell’impatto depressivo rispetto al caso, più simile all’esperienza del 1992, in cui l’Italia sia la sola a risanare e non benefici di maggiori esportazioni nette. 
Qualunque sia lo scenario di base a cui i vari sviluppi presi in considerazione vengono applicati, la prospettiva che ne scaturisce è di una recessione significativa, in particolare se si considera la condizione di “deflazione coordinata” vigente in Europa; in quest’ultimo caso la perdita di prodotto potrebbe essere tale da mettere a rischio la riduzione del rapporto deficit/Pil. Soprattutto la recessione interviene non al picco di un ciclo espansivo, ma quando sono ancora aperte le ferite della flessione precedente. L’output gap è pressoché ovunque ampiamente negativo, i tassi di disoccupazione si situano ben al di sopra dei valori di equilibrio. Anche in un paese come l’Italia, affetto da bassa crescita di lungo periodo, la condizione attuale è quella di una economia che ha carenza di domanda, non di offerta. Le misure di austerità sottraggono ulteriormente domanda aggregata e conducono a un peggioramento del mercato del lavoro. Le misure di inclusione di giovani e donne e la prospettata riforma del mercato del lavoro perdono gran parte della loro efficacia in condizioni di disoccupazione di tipo keynesiano. Si è detto all’inizio che questa è la conseguenza dell’applicazione della regola europea. Essa è resa vieppiù cieca in tempi di crisi del debito: il risanamento deve realizzarsi subito indipendentemente dal ciclo, una prescrizione da anni Trenta. Certo si può sostenere che sono i mercati a imporlo. Ma questo è vero solo nell’attuale modus operandi di regole e rapporti di forza europei. È possibile immaginare, sono tanti a farlo, gestioni diverse della crisi meno costellate da errori e in cui un ruolo attivo, massiccio e convincente della Bce, nell’ambito degli attuali Trattati, riduca i timori degli investitori e allontani la prospettiva di avvitamento autodistruttivo delle economie europee.

(1) In realtà più di una concausa; sull’emergere di uno squilibrio interno tedesco con un settore manifatturiero ipertrofico, la mancata correzione e le ripercussioni che ne sono conseguite per le tensioni intra-area si rimanda all’articolo http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001966-351.html.
(2) L'Fmi ha fornito nell’ultimo biennio un contribuito fondamentale allo studio delle ripercussioni dei consolidamenti fiscali; cfr. Will it hurt? Macroeconomic Effects of Fiscal Consolidation, capitol 3 del World Economic Outlook di ottobre 2010; Guajardo, Leigh e Pescatori (2011), Expansionary Austerity: New International Evidence IMF Working Paper 11/58; Devries, Guajardo, Leigh e Pescatori (2011), A New Action-Based Dataset of Fiscal Consolidation, IMF Working Paper 11/128. La metodologia seguita negli studi del Fondo si basa su una attenta identificazione degli effettivi episodi di aggiustamento fiscale e su una stima panel della risposta media dell’output all’impulso dell’azione di consolidamento attraverso modelli autoregressivi nei tassi di crescita del Pil. In questo articolo faccio riferimento alle stime delle elasticità riportate nel World Economic Outlook di ottobre 2010.
(3) L’Italia è presente nel panel studiato dall'Fmi con 11 episodi di consolidamento fiscale, di cui 4 di grandi dimensioni (superiori o uguali all’1,5 per cento del Pil).
(4) Le elasticità riportate dall'Fmi sono riferite all’effetto cumulato in un biennio. L’identificazione dell’impatto annuale è qui ottenuta dall’evidenza grafica contenuta nel World Economic Outlook.
(5) Vedi http://www.bancaditalia.it/interventi/integov
(6) Le stime degli effetti di consolidamenti adottati simultaneamente da molti paesi sono ottenute sulla base di un modello di equilibrio generale dinamico multi-country.

venerdì 2 dicembre 2011

Per Natale un gesto che vale

Si stanno avvicinando le festività natalizie in un clima surreale che crea ansia e preoccupazioni in ognuno di noi. Le notizie che arrivano quotidianamente sul fronte economico non preannunciano nulla di buono per il futuro, ma proprio per questo dobbiamo cercare di reagire trovando motivazioni in qualcosa di positivo.
Capisco benissimo che sia un esercizio difficile, non lo nego, ma un suggerimento ce l'avrei.
I soldi che decideremo di utilizzare per i regali di Natale (pochi o tanti a seconda delle tasche di ognuno)spendiamoli con coscienza, in modo utile affinché possa diventare un regalo anche per altri.
 Decidiamo di comprare i regali di Natale da piccoli imprenditori, dalla bottega dell'artigiano, dal vicino che tira avanti col proprio negozio, dall'amica che crea oggetti unici, da chi resiste alla globalizzazione nei nostri territori ...... Facciamo in modo che i nostri soldi arrivino a gente comune che ne ha bisogno ... non alle multinazionali e ai grossi imprenditori che sottopagano i dipendenti e delocalizzano le imprese all'altro capo del mondo.... così facendo piu' persone potranno vivere un Natale felice.
Un gesto che non cambierà le sorti dell'economia, ma un segnale positivo per chi nel nostro paese lavora ancora con la sensibilità nei confronti del "bello", della "memoria", della "storia" delle antiche tradizioni, in una parola le nostre "Radici".
Facciamo per Natale un gesto che vale.

domenica 27 novembre 2011

Padova, imprenditore suicida per crisi Esplode la rabbia contro Equitalia

di Roberta Polese




Giancarlo Perin aveva 52 anni, una moglie, due figli, una bella casa. Era proprietario di una delle imprese edili storiche dell’Alta padovana, la Perin Fratelli srl. Venerdì scorso un suo dipendente lo ha trovato impiccato alla benna della gru nella sua ditta di Borgoricco. In un biglietto alla famiglia ha accennato alla crisi, a problemi economici. Chi lo conosce bene dice che temeva di non riuscire più a dare un futuro ai suoi dipendenti.
Effettivamente sembra che la Perin non pagasse la cassa edile dall’aprile scorso, e che avesse chiesto un finanziamento alla banca. Forse Giancarlo non ha avuto le risposte che voleva. Di certo ora quelle risposte le chiedono a gran voce imprenditori e sostenitori che stanno ingrossando sempre più le file degli indipendentisti veneti. “Veneto Stato”, movimento famoso per la “statua all’evasore” in un piccolo comune del Vicentino, si è presentato davanti alla sede di Equitalia a Padova, con bandiere, altoparlanti, striscioni e slogan. Primo tra tutti “Fratelli d’Italia? Non siamo neanche parenti”. L’obiettivo era dimostrare tutta la rabbia per sentirsi strangolati e oppressi da quelle che definiscono le “braccia armate” dello Stato: Equitalia, agenzia delle entrate, Finanza, tasse, ma soprattutto banche.
In onore di Giancarlo il centinaio di manifestanti, tenuti sotto stretta osservazione dalla polizia, hanno acceso alcuni lumini davanti al portone dell’agenzia in via Longhin, “in ricordo di Giancarlo e di tutti i veneti che soffrono per questo illegittimo martellamento esattoriale”, dice il presidente Lucio Chiavegato. La rabbia espolde solo a sentir nominare i ‘nemici’ della Lega. “Bossi è un traditore, Zaia ci chiede di comprare i Btp? Se li compri lui, qui c’è gente che si mette una corda al collo pur di non licenziare i dipendenti”. Una delegazione di manifestanti viene ricevuta a metà mattina da Maurizio Trevisan, capo dell’ufficio provinciale. L’incontro dura una decina di minuti. “Gli abbiamo dato un ultimatum – dice la ‘pasionaria’ imprenditrice Patrizia Badii, fiorentina di nascita e veronese di adozione – o ritirano tutti i loro bollettini o noi non paghiamo, gli abbiamo detto di guardarsi le spalle, chi medita il suicidio per debiti può commettere qualsiasi follia”.
Veneto Stato nasce nel settembre del 2010 e mette insieme le spinte indipendentiste che ruotano attorno al Partito Nazionale Veneto. Lo Statuto, scritto in dialetto, chiede un referendum e il riconoscimento del Veneto come Stato membro dell’unione erupea. Bandiera del movimento, che non ama definirsi partito, è l’evasione fiscale come segno di protesta. La notizia dell’imprenditore suicidatosi in azienda ha lasciato tutti sconvolti: “Ci siamo riconosciuti in lui – afferma la Badii – qui ci si ammala, c’è gente che va in depressione, che perde i capelli, ci strangolano per i prestiti e appena saltiamo una rata ci saltano al collo”.
Il tam tam organizzativo è arrivato anche a Brescia e Bergamo. Gli imprenditori delle altre regioni in Veneto vengono ironicamente chiamati stranieri, ma la gente qui ha poca voglia di scherzare. “Tre anni fa ho aperto un’attività a Genova, ho dovuto chiudere, mi sono ritrovata una cartella da 15milia euro – dice Antonella Clementi, anche lei davanti a Equitalia a manifestare – avevo versato i contributi dei miei dipendenti ma non i miei, sono dovuta tornare a casa dei miei genitori a Brescia, ho 52 anni e due figlie, non dico a nessuno dove sono perché ho paura che mi vengano a cercare”.



- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

domenica 20 novembre 2011

Chi salva l'artigiano?

Annotiamo l'ennesima tragedia che ha colpito il mondo del'artigianato, con buona pace dell'opinione pubblica e la "normalità"con cui i media riportano la notizia. Mi riferisco alla triste vicenda dell'imprenditore edile di Borgoricco suicida perché strozzato dai debiti che la sua azienda aveva con le banche. I commenti delle persone che lo conoscevano, ci parlano di una persona perbene, attaccato al suo lavoro, uno di noi insomma. L'ennesima persona perbene vittima di questa crisi, che sembra non finire mai.
Cosa dire davanti a simili eventi, quando le parole ti mancano e il pensiero inevitabilmente va ai cari che rimangono soli, attoniti e angosciati di fronte a queste tragedie?
Il silenzio in rispetto del dolore dei familiari sarebbe dovuto, ma la frequenza con cui avvengono queste vicende deve portarci ad urlare il nostro "BASTA".
Sappiamo benissimo perché onesti imprenditori arrivano a tanto, e la parola che sintetizza al massimo tutto questo è :  CRISI.
Ma sappiamo bene da dove arriva questa crisi! Arriva dalle banche e dal mondo finanziario e nonostante sia palese a tutti, la crisi la pagano le imprese e le famiglie.
Chi ha causato questo disastro mondiale non solo è stato salvato con risorse pubbliche (e già questo è inaccettabile), ma addirittura sta traendo il massimo profitto sulle disgrazie che hanno causato nel nostro mondo e tra le nostre imprese!
La ricchezza nasce dalla "produzione" mentre la "finanza" la sottrae a chi la produce e la concentra nelle mani di pochi.
E allora  mi chiedo CHI SALVA L'ARTIGIANO, la sua impresa e la sua famiglia? Chi lo salva dallo strapotere delle banche?
Non lo salverà di certo la politica! Assistiamo tutti  inermi e senza reazione alle vicende attuali, dove la politica si è arresa ai poteri forti economici e ci sta preparando ai sacrifici che saranno necessari per ripianare i loro errori,commessi in tutti questi anni di malgoverno, senza pagarne il minimo obolo per giunta.
Non lo salverà nemmeno le associazioni di categoria, prone e servizievoli nei confronti dei politici forti di turno, in attesa magari di poter raccogliere le briciole di potere e i privilegi che ne derivano, lasciate dalla politica .
Rimane solo la coscienza di tutti noi, perché sappiamo che tutto ciò che sta avvenendo è profondamente sbagliato e ingiusto! Dobbiamo riprendere la consapevolezza che il cambiamento può avvenire solo dal basso, cioè da noi cittadini, imprese e famiglie!
La consapevolezza che si può e si deve fare, prima che succedano cose irreparabili.
Perché è questo il pericolo che la nostra società corre.
Riprendiamoci la rappresentanza, a tutti i livelli, facciamolo e presto!


domenica 13 novembre 2011

Il rapporto UE sulla competitività boccia l’Italia per il carico burocratico sulle imprese

 

La Commissione Europea ha pubblicato lo scorso 14 ottobre il rapporto “Politica industriale: rafforzare la competitività”, che esamina in modo specifico i risultati dell’industria relativamente alla competitività nel mercato unico, oltre alle misure che gli stati membri hanno posto in essere per migliorarla. Il giudizio per l’Italia è piuttosto duro, in particolare per quanto riguarda il potenziale di crescita e il carico burocratico che le imprese italiane sono costrette a sopportare, il più gravoso tra i 27 paesi UE.
“Pur mantenendo una base industriale diversificata e per certi versi competitiva a livello globale, il potenziale complessivo di crescita dell’Italia è ragione di preoccupazione” annuncia la Commissione UE all’interno del dossier, realizzato dai servizi del commissario all’Industria Antonio Tajani. Gli ostacoli burocratici sembrano inoltre rappresentare un problema concreto: leggi, permessi e regolamenti sul lavoro obsoleti contribuiscono a rendere il sistema istituzionale italiano il più penalizzante per il business. In questo senso, il paese più favorevole è stato individuato nella Finlandia.
L’Italia si caratterizza inoltre per la scarsa produttività nel lavoro, seppur di non molto inferiore alla media, e si posiziona tra i paesi che possiedono tecnologie meno avanzate assieme a Grecia e Portogallo: a malapena il 55% delle imprese viene definito “innovativo”, contro l’80% della Germania.
Tutti fattori che minano il vantaggio competitivo delle nostre imprese rispetto a quelle degli altri Paesi UE. In particolare se si considera che nel contesto europeo si registra una timida e piuttosto fragile ripresa generale e il sistema economico risulta caratterizzato da un certo pessimismo che pone l’Europa a rischio di una flessione della crescita.

http://www.fondazioneimpresa.it/archives/2562

lunedì 7 novembre 2011

Sos lavoro:a rischio estinzione molti lavori dell’artigianato e dell’agricoltura


HPIM0164.JPGA lanciare l’sos è la CGIA di Mestre: nei prossimi 10 anni sono a rischio estinzione molte professioni manuali dell’artigianato e dell’agricoltura che potrebbero comportare la perdita di almeno 385.000 posti di lavoro.
Quali sono le principali esperienze lavorative che rischiano di scomparire ? Secondo l’elaborazione degli artigiani mestrini, la lista include gli allevatori di bestiame nel settore zootecnico, i braccianti agricoli e una sequela di mestieri artigiani come i pellettieri, i valigiai, i borsettieri, i falegnami, gli impagliatori, i muratori, i carpentieri, i lattonieri, i carrozzieri, i meccanici auto, i saldatori, gli armaioli, i riparatori di orologi e di protesi dentarie, i tipografi, gli stampatori offset, i rilegatori, i riparatori di radio e Tv, gli elettricisti, gli elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria, i sarti, i materassai, i tappezzieri, i dipintori, gli stuccatori, i ponteggiatori, i parchettisti e i posatori di pavimenti.
Infine, in questa mappa delle principali professioni a rischio estinzione, troviamo anche delle figure professionali più “generiche” come gli autisti, i collaboratori domestici, gli addetti alle pulizie, i venditori ambulanti, gli usceri e i lettori di contatori.
Come si è giunti alla mappatura di queste categorie ? Innanzitutto la CGIA ha calcolato il numero di occupati presenti oggi nelle principali professioni manuali compresi nella fascia di età che va tra i 15 ed i 24 anni e in quella tra i 55 ed i 64 anni.
Dopodichè ha misurato il tasso di ricambio, riuscendo così a stilare una prima graduatoria per mestieri. Infine ha stimato il numero delle figure che, presumibilmente, verranno a mancare nei prossimi 10 anni per ciascuna attività (*).
“Premesso che non siamo in grado di prevedere se nei prossimi anni cambieranno i fabbisogni occupazionali del mercato del lavoro italiano – esordisce Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA – siamo comunque certi di tre cose. La prima: fra 10 anni la grandissima parte degli over 55 censiti in questa mappa lascerà il lavoro per raggiunti limiti di età. La seconda: visto il forte calo delle nascite avvenuto in questi ultimi decenni, nel prossimo futuro si ridurrà ancora di più il numero dei giovani che entreranno nel mercato del lavoro, accentuando così la mancanza di turn-over. La terza: se teniamo conto che i giovani ormai da tempo si avvicinano sempre meno alle professioni manuali, riteniamo che il risultato ottenuto in questa elaborazione sia molto attendibile.”
Come si può invertire questa tendenza ?
“Difficile trovare una soluzione – prosegue Bortolussi – che in tempi ragionevoli sia in grado di colmare un vuoto culturale che dura da più di 30 anni. Innanzitutto bisogna rivalutare, da un punto di vista sociale, il lavoro manuale e le attività imprenditoriali che offrono queste opportunità.
Per molti genitori – prosegue il segretario della CGIA – far intraprendere un mestiere al proprio figlio presso un’azienda artigiana è l’ultimo dei loro pensieri. Si arriva a questa decisione solo se il giovane è reduce da un fallimento scolastico, per cui l’occupazione presso un laboratorio artigiano diventa un ‘refugium peccatorum’.
Per questo è necessario avvicinare la formazione scolastica al mondo del lavoro. Attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni e, soprattutto, con il nuovo Testo unico sull’apprendistato approvato nel luglio scorso – conclude Bortolussi – qualche passo importante è stato fatto. Ma non basta. Bisogna fare una vera e propria rivoluzione culturale per ridare dignità, valore sociale e un giusto riconoscimento economico a tutte quelle professioni dove il saper fare con le proprie mani costituisce una virtù aggiuntiva che rischiamo di perdere”.
(*) risultato ottenuto dalla differenza tra il n° di occupati fra gli over 55 e quelli fra gli under 24

domenica 30 ottobre 2011

Su 36% e 55% scure retroattività, anche per le vecchie spese

di Cristiano Dell'Oste e Giovanni Parente

Appesi a un "ni" ci sono sette milioni di contribuenti. Si tratta di tutti coloro che hanno ristrutturato la casa (o gli immobili d'impresa) e non hanno ancora finito di scontare le rate delle detrazioni del 36 e del 55 per cento. A pronunciare il "ni" è stato il sottosegretario all'Economia, Bruno Cesario, nel question time di mercoledì scorso alla Camera, rispondendo a chi gli chiedeva se il taglio delle agevolazioni si sarebbe applicato solo alle spese sostenute dal 1° ottobre 2012 in poi.
Le manovre estive (Dl 98 e 138) dettano un aut aut chiarissimo: riforma delle agevolazioni fiscali e assistenziali entro il 30 settembre dell'anno prossimo oppure, in mancanza, taglio automatico del 5% di tutti i bonus. L'obiettivo è lo stesso: recuperare 4 miliardi di euro già per l'anno 2012.
Capire come funzionerà questo meccanismo, però, è tutt'altro che agevole. Chi ha sostituito gli infissi nel 2009, spendendo ad esempio 1.000 euro, ha diritto al 55%, con rate di 110 euro all'anno fino a Unico 2014. Ma cosa gli succederà? La rata annua scenderà del 5%? Il 14 settembre il Governo ha accolto un ordine del giorno che lo impegnava ad applicare le eventuali riduzioni solo alle spese sostenute dal 1° ottobre 2012. Nella sua risposta di mercoledì scorso, però, Cesario si è limitato a ricordare che - legge alla mano - sarà un decreto del ministero dell'Economia a chiarire come funzioneranno i tagli, in tutti i casi in cui servono istruzioni operative.
Secondo le stime del Sole 24 Ore, la questione interessa circa 5,65 milioni di contribuenti per il bonus sulle ristrutturazioni e 1,35 milioni per quello sul risparmio energetico. Grandi numeri, dunque. Ai quali corrispondono però risparmi potenziali piuttosto contenuti: appena 165 milioni con una limatura del 5 per cento.
Retroattivi o meno, i tagli – verosimilmente – scatteranno nelle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2013 e non interessano solo il 36% e il 55 per cento. Di fatto, nella mappatura delle tax expenditures ci sono bonus molto più diffusi, come le detrazioni per lavoro dipendente e quelle per i familiari a carico. In questi casi i margini di risparmio per l'Erario sono molto più ampi - 2,4 miliardi su base annua - ma entrano in gioco considerazioni di equità sociale. Non è un caso che nel lavoro degli esperti incaricati di classificare tutte le agevolazioni, entrambe queste misure siano state catalogate con il codice "3", che contrassegna i bonus a tutela di principi di rilevanza costituzionale.
Se anche la riforma fiscale non dovesse arrivare in tempo, comunque, sarà necessario un intervento normativo. Prendiamo un esempio paradossale: "tagliare" del 5% l'esenzione Ici, di fatto, vorrebbe dire reintrodurre l'imposta sull'abitazione principale. Ma nella lista delle 500 agevolazioni a rischio c'è anche la cedolare secca sugli affitti: aumentare l'aliquota del 21% non sarebbe complicato, ma la tassa piatta è nata per far emergere gli affitti in nero, e secondo il direttore delle Entrate, Attilio Befera, potrebbe generare un miliardo di euro di maggiori incassi (si veda «Il Sole 24 Ore» del 5 ottobre).
Altro discorso è quello sull'Iva ridotta al 4% (che riguarda tra l'altro i beni di prima necessità come pane e pasta) e al 10% (gas, luce e telefono, ma anche ristrutturazioni edilizie e trasporti). In questo caso, il taglio del bonus presuppone un aumento dell'imposta e non potrebbe essere automatico, un po' come è successo con il recente passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria. Per avere un'idea delle cifre in gioco, passare al 4,5% e all'11% vorrebbe dire – a consumi invariati – recuperare circa 2,6 miliardi su base annua.
Forse non è un caso che la manovra di Ferragosto, anticipando di un anno tutta l'operazione, abbia inserito una frase che consente «la rimodulazione delle aliquote delle imposte indirette, inclusa l'accisa», con un Dpcm di concerto con via XX settembre. Una soluzione a portata di mano, ma solo per il breve periodo, perché i miliardi da recuperare saranno 16 per il 2013 e 20 dal 2014 in poi. E lì un ripensamento del sistema pare davvero inevitabile.


martedì 18 ottobre 2011

Bioedilizia e innovazione energetica in crescita nei comuni italiani

Sono in continuo aumento i Comuni italiani in cui vengono realizzati edifici sostenibili: è quanto si evince dal Rapporto 2011 dell’Onre (Osservatorio nazionale regolamenti edilizi per il risparmio energetico), di recente divulgazione, a cura di Legambiente e Cresme. Sono infatti 839 le realtà locali che hanno deciso negli ultimi cinque anni di modificare i propri regolamenti edilizi per inserire nuovi criteri al fine di migliorare prestazioni energetiche e qualità del costruito.
Un trend in costante crescita (erano 705 comuni nel 2010, 557 nel 2009): nei primi 9 mesi del 2011 sono ben 134 le nuove amministrazioni che sono intervenute sui regolamenti edilizi. Nelle zone in cui la normativa in vigore richiede questi strumenti innovativi vivono complessivamente oltre 20 milioni di cittadini, in città grandi e piccole. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, il report rileva una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale nelle zone del centro-nord.
Ai fini dello studio sono stati inclusi diversi parametri: isolamento termico, utilizzo di fonti rinnovabili, efficienza energetica degli impianti, orientamento e schermatura degli edifici, materiali da costruzioni locali e riciclabili, risparmio idrico e recupero acque meteoriche, isolamento acustico, permeabilità dei suoli e effetto isola di calore. Inoltre, da quest’anno sono stati inseriti come indicatori anche le prestazioni dei serramenti, la contabilizzazione del calore e la certificazione energetica.

http://www.fondazioneimpresa.it/

venerdì 7 ottobre 2011

NUOVO APPRENDISTATO CONTRO LO SPRECO DI CAPITALE UMANO

 

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L'università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.
Con Turchia e Messico, l’Italia vanta il primato tra i paesi Ocse nella percentuale di giovani Neet (Neither in Employment, nor in Education or Training), non occupati, né in istruzione formale o formazione. È un fenomeno in aumento: negli ultimi anni abbiamo assistito a un forte incremento della disoccupazione giovanile e, al tempo stesso, ad un preoccupante calo delle immatricolazioni universitarie, diminuite del 10 per cento in tre anni. Una delle ragioni del calo è il fallimento delle lauree triennali. Molti giovani hanno paura a imbarcarsi in un percorso di studi che potrebbe durare fino a dieci anni e provano a entrare immediatamente nel mercato del lavoro pur con basse qualifiche, contratti precari e bassi salari. Al tempo stesso, le imprese hanno ridotto gli investimenti in formazione dei giovani che entrano in azienda.
UNA RIFORMA A COSTO ZERO…
Una riforma a costo zero per le casse dello Stato è quella di introdurre la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto automatico a entrare in azienda.
Il rapporto tra università e ingresso nel lavoro è oggi affetto da una specie di circolo vizioso. Il sistema universitario è spesso accusato di preparare studenti poco adatti a entrare nel mondo del lavoro. Il mondo delle imprese, a sua volta, è accusato di non valorizzare le competenze apprese in università. Le indagini campionarie rivelano che in Italia il cosiddetto mismatch, la mancata corrispondenza fra le qualifiche acquisite nel corso di studio e quelle richieste dalle imprese, è nettamente più alto che negli altri paesi europei, a eccezione del Portogallo. La presenza di contratti a tempo determinato e l’alta percentuale dei giovani che entra nel mercato del lavoro con un contratto a progetto rafforza il circolo vizioso perché riduce gli incentivi delle imprese a fornire formazione in azienda ai nuovi arrivati, dato che vengono assunti con contratti a scadenza e dunque non si investe sulla durata del rapporto di lavoro. Bisogna rompere questo circolo vizioso incoraggiando, a costo zero per le casse dello Stato, un ingresso formativo nel mondo del lavoro. Ma prima di illustrare nei dettagli la nostra proposta è utile richiamare cosa è stato fatto a riguardo negli ultimi due anni.
L’APPRENDISTATO CONFEDERALE DI SACCONI
Nel luglio 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato una “riforma dell’apprendistato” presentata come il principale canale di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani italiani. L’idea della riforma è quella di demandare alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la definizione di specifiche clausole contrattuali legate alla formazione e all’inserimento contrattuale e presumibilmente anche la gestione dei percorsi formativi. La legge approvata si limita a stabilire la durata dell’apprendistato in tre anni e a individuare quattro tipologie di apprendistato: i) quello per la “qualifica e il diploma professionale” per gli under 25 con la possibilità di acquisire un titolo di studio in ambiente di lavoro; ii) quello “di mestiere” per i giovani tra i 18 e i 29 anni che potranno apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro; iii) quello di “alta formazione e ricerca” per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari e per la formazione di giovani ricercatori per il settore privato; iv) quello per la “riqualificazione di lavoratori in mobilità” espulsi da processi produttivi.
Il problema centrale di ogni contratto di apprendistato è assicurarsi che abbia davvero contenuto formativo. Nella pratica molti contratti di apprendistato vengono utilizzati solo come strumenti per ottenere più flessibilità e minori costi del lavoro. Non è casuale che la quota di assunzioni con i cosiddetti “contratti di formazione e lavoro” sia fortemente diminuita in Italia da quando si è permesso un maggiore ricorso ai contratti a tempo determinato e al parasubordinato.
Il governo affronta il problema chiedendo di fatto ai sindacati di normare e monitorare i contratti di apprendistato. Ma il sindacato in tutti questi anni avrebbe già potuto monitorare la gestione di questi contratti da parte dei datori di lavoro e verificarne il contenuto formativo. Non lo ha fatto probabilmente perché non ha la forza, la presenza in tutte le aziende, per farlo. E forse non è neanche capace di farlo. I sindacati da anni gestiscono corsi di formazione finanziati dal Fondo sociale europeo. E l’esperienza è tutt’altro che incoraggiante.
E GLI ISTITUTI TECNICI SUPERIORI DEL MIUR
Nello scorso maggio il Miur ha introdotto gli Istituti tecnici superiori, un passo utile per avvicinare mondo della formazione e mondo delle imprese. Gli Istituti tecnici superiori rappresentano un corso parallelo a quello universitario e sono fondazioni costruite da scuole, università e imprese. Si tratta indubbiamente di un’iniziativa interessante, ma nella nostra idea si dovrebbe dar vita a veri e propri corsi di laurea. Non servono altre fondazioni. Ne abbiamo fin troppe in Italia. Le università, probabilmente, sono poi restie a creare percorsi paralleli a quelli universitari. I trienni specializzanti devono invece offrire una prospettiva a quelle sedi universitarie che non raggiungono la massa critica che loro permette di attivare corsi di biennio o superiori di qualità.
IL CONTROLLO RECIPROCO FRA AZIENDA E UNIVERSITÀ
La verifica dei contenuti formativi forniti dall’azienda dovrebbe invece venire affidata a chi ha come compito istituzionale proprio la formazione. La riforma del governo dimentica del tutto l’università. È un errore molto grave. Vediamo come è possibile creare una collaborazione e al tempo stesso un controllo reciproco fra imprese e università nella gestione dell’apprendistato.
Il sistema universitario italiano ha adottato, ormai da quasi un decennio, il percorso universitario del “tre” più “due”. Secondo l’idea originale della riforma, la prima laurea triennale generalista dovrebbe essere seguita e conclusa dalla maggior parte di chi si iscrive all’università, mentre la laurea specialistica dovrebbe essere riservata agli studenti più meritevoli dal punto di vista accademico. La riforma ha riguardato quasi tutte le discipline e tutti i paesi europei, con l’eccezione della scuola di medicina e della laurea in giurisprudenza, che hanno generalmente mantenuto la durata tradizionale di 6 e 5 anni. Ad ogni modo, la laurea triennale avrebbe dovuto permettere alla maggior parte degli studenti di entrare nel mondo del lavoro. Così non è stato. Quasi tutti gli studenti iscritti alla triennale proseguono con il biennio specialistico e il mondo delle aziende non è riuscito ad accettare l’idea che la laurea triennale sia sufficiente per entrare nel mondo del lavoro da laureato. È difficile stabilire se la colpa sia del mondo delle imprese o del mondo universitario, ma è evidente che il sistema scuola-lavoro, sulla laurea triennale, non ha funzionato. Occorre quindi un nuova idea di apprendistato.
IL NUOVO APPRENDISTATO UNIVERSITARIO
L’idea è semplice. Ciascuna università, insieme a un numero di imprese localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università. Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento alla fine del triennio. Questo tipo di percorso è facilmente realizzabile nelle discipline aziendali, in quelle bancarie e assicurative, nelle discipline contabili, in giurisprudenza e anche nelle amministrazioni pubbliche. E, a seconda della specializzazione del territorio di riferimento, può essere introdotto in imprese chimiche, elettroniche, bio-mediche, nelle scienze medicali, nel design e nella gestione del turismo.
In Italia vi sono circa ottanta atenei, troppi. Molti non sono in grado di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei dovrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza lavoro un certo numero di apprendisti per anno. Ovviamente le province dell’Italia centrale daranno origine a percorsi di specializzazione tecnica diversi da quelli del Nord Italia e del Meridione. Si potrebbe così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul rapporto impresa locale e università locale. Nel Mezzogiorno ci potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato universitario in meccanica e scienze biomedicali.
Un aspetto importante riguarda il contratto di lavoro del giovane studente. Il contratto di lavoro in apprendistato universitario potrebbe essere simile a un contratto a progetto o a contratto a tempo determinato e non ci sarebbe alcun obbligo dell’impresa all’assunzione in via permanente. Tecnicamente è forse solo necessario che il ministero dell’Università e della ricerca autorizzi gli atenei a creare questo tipo di corso di laurea. Spetterebbe poi alle imprese locali e alle università organizzare i corsi.
Si possono anche fare delle stime. I grandissimi atenei potrebbero facilmente organizzare una decina di questi corsi con bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di apprendistato. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati in contratto di apprendistato. A regime, e calcolando i giovani apprendisti su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati in apprendistato intorno alle 50mila unità, un numero di occupati che avrebbe effetti aggregati sul mercato del lavoro. Inoltre, dopo un triennio tra università e azienda, le prospettive occupazionali di lungo periodo di questi giovani sarebbero certamente migliori di quelle attuali. I giovani, una volta laureati con il contratto di apprendistato potrebbero poi entrare definitivamente nel mercato del lavoro grazie a contratti a tempo indeterminato come il Contratto unico di inserimento.

domenica 2 ottobre 2011

Dove la disoccupazione cresce la politica guadagna di più

di Chiara Paolin

L'economista Andrea Gennaro ha pubblicato un dossier sul sito lavoce.info. Risultato: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati degli investimenti deludono. Maglia nera la Sardegna con oltre 14mila euro al mese per il governatore
“Quest’estate ero al mare in Sicilia, e leggevo sui giornali gran polemiche sugli stipendi dei consiglieri regionali. Gli onorevoli siciliani, come li chiamano laggiù. Allora ho pensato di andare a vedere quanto guadagnano davvero governatori e consiglieri comparando le indennità con i dati relativi al benessere economico della popolazione, cioè Pil e tasso di disoccupazione. Il risultato è sconfortante”. Andrea Garnero parla dal suo ufficio di Bruxelles, è un giovane economista che ha lasciato Cuneo per girare le università europee. Ma il suo cuore è rimasto impigliato nei guai tricolori.

Su lavoce.info ha pubblicato un report sui costi della politica regionale ed emette un verdetto chiaro: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati dell’investimento deludono. Soprattutto nel Sud. A contendersi la maglia nera le solite note: Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Molise. Terre preziose per chi riesce a salire sullo scranno, visto che i governatori meritano compensi tra i 10 e i 14 mila euro al mese (record assoluto la Sardegna con 14.644 euro, subito dietro Puglia e Sicilia) e i consiglieri viaggiano amabilmente tra i 9 e gli 11 mila euro.

Il guaio è che proprio in quelle aree il prodotto interno lordo pro capite è scarso e la disoccupazione galoppa. Come dire, costano tanto e rendono poco? “Esatto – risponde Garnero –. In controtendenza totale rispetto alle altre regioni europee, in Italia se la macchina amministrativa è più cara i risultati sul territorio sono più scarsi. Vorrei chiarire che i compensi da me indicati sono precisi con un’approssimazione cui ho dovuto cedere per l’impossibilità materiale di avere tutte le voci necessarie a stabilire il costo reale, ma la sostanza è certa: l’efficienza amministrativa è ancora un miraggio per noi”.

Perché anche dove i dati socioeconomici sono meno opachi, il prezzo da pagare resta alto. Il leghista Roberto Cota guadagna 13 mila euro al mese e deve combattere una disoccupazione del 7,6 per cento nel suo Piemonte che a Pil (28.800 euro pro capite) sta messo maluccio rispetto ai superlaboriosi di montagna come la Valle d’Aosta (30.600 euro) o la provincia autonoma di Trento (31.000 euro). Idem la collega laziale Renata Polverini, che nonostante una bella ricchezza territoriale (31.100 euro a testa, da bilanciare sempre con la saggia regola del pollo diviso in due anche quando uno resta a bocca asciutta) si prende 12 mila euro al mese, ma vede i disoccupati salire oltre il 9 per cento della popolazione attiva. La Lombardia, che batte tutti in Pil (33.900 euro) offre uno stipendio da supermanager ai suoi fedeli amministratori: 11.739 euro a Roberto Formigoni e addirittura di più, 12.523 euro, ai consiglieri regionali (vedi Nicole Minetti).

“Almeno lì le cose funzionano un po’ – sospira Garnero –, e non è un’idea sbagliata calcolare che quando uno regge bene un servizio pubblico vada pagato come se gestisse un’azienda privata. Ma ci sono anche Regioni dove gli amministratori lavorano con buoni risultati e sono foraggiati molto meno: vuol dire che si può fare”.

I meno peggio della classe sono le piccole autonomie di montagna, da Bolzano alla Valle d’Aosta, ma anche l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche, il Friuli. Saranno loro il modello da imitare nel federalismo che verrà? “Discorso complesso – chiude Garnero –. E soprattutto mi chiedo: se fossimo già in uno Stato federale e capitasse il default della Sardegna o della Sicilia, che succederebbe all’Italia?”. All’Italia non si sa, ma la Padania dovrebbe per forza tagliare i compensi ai suoi amministratori.

da Il Fatto Quotidiano del primo ottobre 2011

mercoledì 28 settembre 2011

Una crescita senza benessere



La crescita (che non c’è e, dove c’era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit – e debito – e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch’essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).
Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l’avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l’andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?
In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l’irreversibilità della situazione.
La posizione dell’Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare – in barba ai risultati dei referendum – sono più succosi, mentre una presa d’atto del fallimento farebbe saltare, insieme all’euro, anche l’Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato – e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori – l’Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall’oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po’, le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall’Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.
Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava “sviluppo“) che non è mai venuta.
Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito.
La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio.
Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare – in parte – il loro debito.
La crescita di cui parlano gli economisti – e di cui blaterano tanti politici – è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l’invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo.
Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull’occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e – soprattutto: questa dovrebbe essere la “molla” della ripresa – di Grandi opere.
Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l’opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all’abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma.
Per la protezione dell’ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va – temporaneamente – sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l’equità – tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l’oggi e le generazioni future – meno ancora.
La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l’occupazione (c’è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall’aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né tiene conto della distruzione della socialità e della socievolezza.
Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta – con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere – a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance – intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio – perché è l’impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali).
Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità.
Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.
Per far fronte alla crisi – che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione – valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere unprogramma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi.
Non c’è spazio – né ambientale, né economico, né sociale – per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell’informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (prime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attacco).
Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare.
Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un’economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere.
La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili.
Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l’azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l’esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti).
L’alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.


di Guido Viale – «il manifesto».

domenica 18 settembre 2011

Ue: “In Italia crescita zero nel secondo semestre 2011″

Nel secondo semestre dell’anno la ripresa in Italia si fermerà e su base annua il Pil crescerà dello 0,7% (contro l’1% stimato lo scorso maggio): queste le indicazioni delle previsioni economiche diffuse oggi dalla Commissione europea, secondo cui le prospettive dell’economia sono “incerte e molti sono i rischi che pesano su previsioni” economiche già “deteriorate”. Per Bruxelles, la domanda “moderata”  inciderà sull’export, ovvero il fattore che finora ha trainato la crescita. In aumento, inoltre, il costo dei finanziamenti per le imprese a causa delle recenti tensioni sui mercati valutari, il che inciderà negativamente sugli investimenti. Male anche i consumi privati così come gli indici di fiducia di imprese e famiglie, che hanno registrato forti flessioni negli ultimi mesi. Sul fronte dell’inflazione, invece, Bruxelles ha confermato per l’Italia la stima di maggio, ovvero un tasso di incremento dei prezzi al consumo del 2,6%.
Secondo il commissario per gli affari economici e monetari Olli Rehn, “la ripresa che segue una crisi finanziaria è spesso lenta e irta di ostacoli” e oggi ci si trova in un “contesto esterno più difficile mentre la domanda interna resta debole”. Per Rehn, la crisi del debito sovrano “si è aggravata e le turbolenze sui mercati finanziari sono destinate a frenare l’economia reale”, il che richiede “costanza” nell’attuazione di una  strategia di risanamento di bilancio che sia differenziata e favorevole alla crescita” e di decisioni per la stabilità finanziaria. Inoltre, le riforme strutturali “sono più importanti che mai” per creare il futuro potenziale di crescita. Le misure per il consolidamento dei conti pubblici contenute nella manovra approvata nei giorni scorsi dal Parlamento italiano, inoltre, a sentire Rehn non avranno “nessun impatto sulla crescita del Pil di quest’anno, ma avranno un impatto sulla crescita dal 2012 al 2014″. La manovra, però, per Rehn va nella “giusta direzione”, anche se ora all’Italia servono più misure “per stimolare la crescita” e “ulteriori sforzi per la liberalizzazione dell’economia”.

venerdì 9 settembre 2011

NEL 2014 LA PRESSIONE FISCALE ARRIVERA' AL 44,7%

Le recenti manovre fiscali (DL 98/2011 e DL 138/2011) con le quali si pone l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio già dal 2013, sono composte prevalentemente da maggiori entrate e, in particolare, da maggiori entrate fiscali.
Questo comporterà un forte inasprimento della pressione fiscale, che nel 2012 raggiungerà il livello record del 1997 pari al 43,7%, e, negli anni successivi, lo supererà, arrivando a raggiungere nel 2014 quota 44,7%.
L’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, utilizzando le previsioni di finanza pubblica contenute nel DEF 2011 (Documento di Economia e Finanza) e i documenti parlamentari, ha ipotizzato che le maggiori entrate fiscali previste con le manovre finanziarie vadano ad aumentare le entrate fiscali preventivate.
Il risultato a cui si perviene potrebbe essere sottostimato (e quindi il livello di pressione fiscale ancora più elevato), in quanto non si è considerato il gettito di tutte le nuove misure introdotte (ad esempio quello derivante dal possibile recupero della rate scadute e non versate del condono IVA 2002 e dell'imposta di bollo sui trasferimenti di denaro degli stranieri). Inoltre gli enti territoriali, per recuperare risorse finanziarie in seguito ai rilevanti tagli delle Finanziarie, potrebbero aumentare le tasse locali nell'ambito della loro possibilità di manovra.

“Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre, dichiara che la pressione fiscale può aumentare anche oltre la soglia del 44,7%, se si considera che la maggiore imposizione fiscale potrebbe ridurre la crescita economica e, quindi, il livello del PIL. In questo caso, se si ipotizza che nel 2014 il PIL si mantenga sui medesimi livelli del 2013, la pressione fiscale sarebbe pari al 46,2%, percentuale che salirebbe al 46,7% in caso di recessione consistente”.

martedì 6 settembre 2011

«Meno male che i mercati si sono accorti che l’Italia non è credibile»

di Antonio Vanuzzo
«Mario Monti è un grande politico, ma le misure di consolidamento fiscale di cui ha bisogno l’Italia rimangono le stesse qualsiasi sia il colore del governo». Lo dice a Linkiesta Hans Werner Sinn, presidente dell’Ifo e consigliere ascoltato da Angela Merkel. L’economista tedesco ritiene che la Bce abbia sbagliato a varare un programma di acquisto di bond italiani.
CERNOBBIO – «Meno male che i mercati si sono accorti che l’Italia aveva bisogno di una riforma del debito e della spesa pubblica». Va diretto al punto Hans Werner Sinn, presidente dell’Ifo, l’Istituto che si occupa di “tastare il polso” agli imprenditori tedeschi. Un indicatore molto osservato dai mercati per capire che aria tira nella principale economia europea.
Ieri mattina durante la prima sessione del Workshop Ambrosetti ha affermato che l’economia del Nord Italia «è tra le più forti d’Europa e salverà il resto del Paese». Come riallineare il Sud Italia e l’Europa mediterranea con il Nord Europa?
L’Italia e la Germania hanno problemi simili, come la competitività di alcune regioni, perché tutte le regioni hanno gli stessi salari. Credo dovremmo avere diversi livelli salariali a seconda della velocità della crescita economica. Tenere bassi i salari ad esempio in alcune regioni d’Italia, dove la crescita è più difficoltosa e dove la vita costa di meno, potrebbe stimolare la loro competitività e di conseguenza aumentare il livello di occupazione. In Germania abbiamo una politica da “stessa paga a parità di lavoro” che di fatto ha ostacolato l’ex Germania Est rispetto alla Germania Ovest.
Lei sostiene che la Bce non avrebbe mai dovuto varare un programma di acquisto di bond italiani e spagnoli. Perché?
Perché i Trattati di Maastricht vietano espressamente di finanziare i singoli Paesi. Condivido la visione del presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca, Ndr), che sostiene come l’acquisto di bond governativi sul mercato sia una forzatura dell’interpretazione dei trattati. Da un punto di vista “legale”, ho seri dubbi sulla condotta della Bce. Da un punto di vista squisitamente economico, gli acquisti massicci di Btp italiani da parte di Francoforte hanno determinato una fittizia riduzione del differenziale di rendimento con i bund, e questo ha diminuito l’urgenza di adottare misure significative per tagliare il debito e il deficit. Ritengo che il differenziale di rendimento sia una sorta di “strumento di controllo disciplinare” per i Governi, per far sì che non spendano soldi che non hanno.
Vero, ma allora la Bce non avrebbe dovuto nemmeno mandare una lettera al governo Berlusconi, chiedendo un preciso programma per evitare l’effetto contagio.
Si, ma la lettera rappresenta soltanto un avvertimento disciplinare, il cui effetto è pari a zero se accompagnato da un massiccio acquisto di titoli di Stato. Sarebbe stato meglio non scrivere la lettera né acquistare bond italiani. L’acquisto di bond riduce i differenziali di rendimento, è vero, ma questi spread sono necessari per mantenere sotto controllo l’eccessivo afflusso di capitali esteri in un sistema economico.
Crede che un governo “tecnico” guidato da Mario Monti potrebbe approvare con tempestività le misure di riduzione di debito e deficit che il mercato e l’Europa ci chiede?
Credo che Mario Monti sia un grande politico, adatto ad avere dei ruoli di vertice in Italia, e rispettato ovunque. Tuttavia, le misure di consolidamento fiscale di cui ha bisogno l’Italia rimangono le stesse qualsiasi sia il colore del governo. È assolutamente necessario agire ora, semplicemente perché non ci sono alternative. L’unica opzione possibile per l’Italia è l’austerity, altrimenti i salari e l’inflazione andranno fuori controllo.
Lei è molto scettico sul futuro dell’euro: parlare di uscita della Grecia dalla moneta unica non è più un tabù da molto tempo.
Non sono scettico sull’euro. Ritengo che saprà sopravvivere a questo periodo particolarmente turbolento, in quanto penso l’Europa abbia bisogno di una moneta unica. Per quanto riguarda la Grecia, rimanere in Eurozona sarà sempre più difficile, perché non vedo come il Paese possa ritornare ad essere competitivo senza una svalutazione. Anche se il debito ellenico venisse ristrutturato, l’economia non sarebbe in grado di crescere, perché il Paese è troppo caro rispetto, per esempio, alla vicina Turchia. Rimanere nell’euro, per la Grecia, significa dover affrontare un lunghissimo periodo di stagnazione, alti livelli di disoccupazione e tensioni politiche. Tuttavia, uscire dall’euro non è semplice, perché si realizzerebbe una catena di default che distruggerebbe il sistema bancario greco. Tutte le misure di austerità richieste dall’Europa vanno accompagnate proprio per questo con un pacchetto di aiuti al sistema finanziario di Atene.
Il parlamento tedesco ha ritardato il voto sul meccanismo salva-Stati Efsf, dal 21 al 29 settembre. Ritiene che l’Efsf sia uno strumento funzionale per calmare i mercati?
Penso che la dotazione finanziaria dell’Efsf sia troppo elevata, in quanto invita gli Stati in difficoltà a servirsene. Di fatto, è un passo in avanti nella direzione degli eurobond, che credo siano assolutamente pericolosi per l’Eurozona in quanto spalmano le responsabilità dei singoli Stati su tutti gli altri Stati membri, senza alcuna differenza di merito.
La Germania pagherebbe più di tutti.
Sicuramente, ma anche per ragioni di efficienza economica: gli eurobond eliminano il premio al rischio pagato dagli Stati con un elevato livello di indebitamento, eliminando per questo la funzione di “controllo disciplinare” dei mercati. I Paesi europei continuerebbero a basarsi pesantemente sull’indebitamento per finanziare la propria spesa pubblica, come è avvenuto prima della crisi dei debiti sovrani, e alla fine l’intera Eurozona affonderebbe soffocata dai suoi debiti. Basti pensare al rischio di contagio tra gli Stati fiscalmente sani e quelli malati. Recentemente, il premio al rischio pagato dalla Germania per il solo fatto di partecipare a questo programma è salito oltre quello della Gran Bretagna, per la prima volta nella storia. Ciò significa che anche la Germania è sulla buona strada per perdere progressivamente la sua credibilità sui mercati.
Un commento sugli ultimi dati relativi al Pil tedesco, sostanzialmente a zero negli ultimi due trimestri. È un cambiamento congiunturale o un rallentamento temporaneo?
Gli ultimi dati sul Pil tedesco non sono stati per nulla buoni, ma per il semplice fatto che abbiamo deciso di chiudere le nostre centrali atomiche. Una decisione politica pesante che non ha nulla a che fare con il ciclo economico tedesco. Il clima che attraverso l’Ifo misuriamo ogni mese è peggiorato significativamente, ma siamo ancora a livelli elevati, e il giudizio degli operatori sulla situazione economica tedesca rimane ancora molto buono, ma non così buono come in primavera. Vediamo un sostanziale raffreddamento nell’attività economica, ma non si tratta assolutamente di una recessione. Semplicemente, il boom straordinario che ha vissuto l’economia tedesca è passato. La Germania avrà ancora l’opportunità di crescere sopra la media dell’Eurozona negli anni a venire, almeno fino a quando rimarrà un porto sicuro per i capitali.
antonio.vanuzzo@linkiesta.it

mercoledì 31 agosto 2011

Nasce l'Unione Provinciale Imprese

L'atto costitutivo fa data il 29 dicembre dello scorso anno. "Ma abbiamo aspettato la fine di agosto per ufficializzare l'avvio dell'attività della nuova associazione per due ordini di motivi: inannzitutto perchè abbiamo voluto valicare la quota di 400 associati e poi perchè è settembre l'inizio di ogni vera stagione. Quest'anno poi, con la manovra del governo che sarà devastante per le imprese, settembre sarà il vero banco di prova col quale dovremo confrontarci un po' tutti".
Fabio Di Stasio, direttore di Artigianfidi Padova, parla nella sua nuova veste di presidente dell'UPI (Unione Provinciale Imprese) la neonata associazione di categoria che intende caratterizzarsi per una profonda discontinuità rispetto all'offerta attuale.
Innanzitutto l'ispirazione culturale di fondo.
"A qualcuno potrà sembrare anacronistico - mette in chiaro il presidente - ma L'Upi nasce forte della tradizione cristiana che è radicata nel nostro tessuto imprenditoriale. Questo significa che la solidarietà e l'etica avranno, nella nostra organizzazione, un peso determinante".
Il che, tradotto in concretezze, significa: nussun compenso ai dirigenti dell'Upi (attualmente, con Di Stasio, figurano Massimo Schiavon in veste di vicepresidente e Giampaolo Dal Pozzo, Stefano Molon e Antonio Toffanin in veste di consiglieri); creazione di un fondo di solidarietà, consulenza gratuita alle aziende in difficoltà, attivazione di una banca dati di sostegno intra-imprese.
"Anche sul fronte dell'assistenza - aggiunge Di Stasio - intendiamo muoverci in maniera del tutto originale: al di là dell'appoggio che la neonata associazione avrà da Artigianfidi, organizzazione della quale è diretta emanazione, tutto il resto sarà frutto di accordi con partner esterni. Questo significa zero costi di struttura perchè ci accorderemo all'esterno per la fornitura ai soci di servizi a prezzi concordati, stipuleremo accordi con società di formazione e di consulenza specifica, oltre che accordi con società di marketing e comunicazione con particolare attenzione all'aspetto della multimedialità; infine non mancheranno accordi con gruppi di acquisto".
Ma è evidentemente sul fronte sindacale che l'Upi intende giocare una partita importante ed i 400 iscritti (tutti ovviamente provenienti da Artigianfidi visto che, fino ad oggi, l'idea della nuova associazione ha viaggiato sotto traccia) saranno destinati a crescere solo se il nuovo soggetto della rappresentanza d'impresa saprà far valere un punto di vista originale.
"La nostra parola d'ordine - evidenzia il presidente dell'Upi - sarà "partecipazione". Partecipazione dei soci alla vita dell'associazione ma anche partecipazione dell'associazione alla vita economica e sociale del nostro territorio. In questo senso vogliamo confrontarci con le amministrazioni locali attraverso la creazione di un responsabile comunale e la creazione, al nostro interno, di aree di rappresentanza a seconda dei settori di appartenenza. Per quanto riguarda invece l'affiliazione a qualche rappresentanza nazionale, per il momento riteniamo di dover rimanere alla finestra".
Ma come fare per associarsi alla neonata associazione di categoria e, soprattutto, quanto costa farlo?
"Dieci euro - conclude Di Stasio - è il contributo che chiediamo ad ogni impresa che decide di fare il percorso assieme a noi. Ci si può iscrivere presso la sede di Artigianfidi di piazza De Gasperi 30 (telefono 049 9814844) o presso le due sedi periferiche di Abano Terme (piazza Dondi Dell'Orologio 2) e di Monselice (via Rovigana 7/1)".

venerdì 26 agosto 2011

In Italia senza lavoro 1.183.000 giovani under 35.

OCCUPAZIONE - Rapporto di Confartigianato

Record negativo per disoccupati tra 15 e 24 anni: 29,6%
Sicilia 'maglia nera'

L'Italia ha il record negativo in Europa per la disoccupazione giovanile: sono 1.138.000 gli under 35 senza lavoro. A stare peggio i ragazzi fino a 24 anni: il tasso di disoccupazione in questa fascia d'età è del 29,6%  rispetto al 21% della media europea.
La situazione del mercato del lavoro nel nostro Paese è fotografata in un rapporto dell'Ufficio studi di Confartigianato in cui si rileva che tra il 2008 e il 2011, anni della grande crisi, gli occupati under 35 sono diminuiti di 926.000 unità.
Se a livello nazionale la disoccupazione delle persone fino a 35 anni si attesta al 15,9%, va molto peggio nel Mezzogiorno dove il tasso sale a 25,1%, pari a 538.000 giovani senza lavoro.
La Sicilia è la regione con la maggior quota di disoccupati under 35, pari al 28,1%. Seguono la  Campania con il 27,6%, la Basilicata con il 26,7%, la Sardegna con il 25,2%, la Calabria con il 23,4% e la Puglia con il 23%. Le condizioni migliori per il lavoro dei ragazzi si trovano invece in Trentino Alto Adige dove il tasso di disoccupazione tra 15 e 34 anni è contenuto al 5,7%. A seguire la Valle d'Aosta con il 7,8%,  il Friuli Venezia Giulia con il 9,2%, la Lombardia con il 9,3% e il Veneto con il 9,9%.
Nella classifica provinciale la maglia nera va a Carbonia-Iglesias dove i giovani under 35 in cerca di occupazione sono il 38% della forza lavoro. Seguono a breve distanza Agrigento (35,8%) e Palermo (35,7%). La provincia più virtuosa è Bolzano dove il tasso dei giovani senza lavoro è pari al 3,9%, seguita da Bergamo con il 5,6%, e da Cuneo con il 5,7%.
La crisi del mercato del lavoro italiano non riguarda soltanto i giovani. Il Rapporto di Confartigianato mette in luce un peggioramento della situazione anche per gli adulti.  La quota di inattivi tra i 25 e i 54 anni arriva al 23,2%, a fronte del 15,2% della media europea, e tra il 2008 e il 2011 è aumentata dell'1,4% mentre in Europa è diminuita dello 0,2%.
In un contesto così critico, il rapporto di Confartigianato rivela paradossi tutti italiani sul fronte dell'istruzione e della formazione che prepara al lavoro.  Per il prossimo anno scolastico 2011-2012, infatti, è previsto un aumento del 3% degli iscritti ai licei e una diminuzione del 3,4% degli iscritti agli istituti professionali. Nel frattempo, le imprese italiane, nonostante la crisi, denunciano la difficoltà a reperire il 17,2% della manodopera necessaria.
Una strada per facilitare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro è rappresentata dall'apprendistato. Secondo la rilevazione di Confartigianato gli apprendisti in Italia sono 592.029. In particolare l'artigianato è il settore con la maggiore vocazione all'utilizzo di questo contratto: il 12,5% delle assunzioni nelle imprese artigiane avvengono infatti con l'apprendistato, a fronte del 7,2% delle aziende non artigiane.
“La riforma dell'apprendistato voluta dal Ministro Sacconi – sottolinea il Segretario Generale di Confartigianato Cesare Fumagalli - potrà contribuire a ridurre la distanza tra i giovani e il mondo del lavoro. Da un lato, i ragazzi potranno trovare nuove strade per imparare una professione, dall'altro le imprese potranno formare la manodopera qualificata di cui hanno necessità”.

lunedì 22 agosto 2011

Unioncamere: “Nel 2011 persi 88mila posti di lavoro”

Sarà un autunno molto pesante per l’occupazione: anche se la perdita di posti di lavoro cala rispetto ai due anni precedenti, il saldo a fine 2011 per le imprese con almeno un dipendente (circa 1,5 milioni) mostra ancora il segno meno: 88mila i posti in uscita – dice Unioncamere – pari a un calo dell’occupazione dipendente dello 0,7%. Più a rischio il lavoro nelle piccole e medie imprese e, a livello geografico, è il Sud a mostrare un deciso affanno.

Nel 2010 il saldo negativo era stato di 178mila unità, -1,5%. Peggio ancora era andata nel 2009, anno clou della crisi: 213.000 i posti bruciati, pari a -1,9%.

Nei numeri del centro studi Unioncamere il 2011 vede quasi 44mila entrate in più rispetto al 2010 e 47mila uscite in meno ma, anche a causa dell’accresciuta incertezza sulla scena internazionale, l’inversione di tendenza non sembra essere alle porte per le imprese dell’industria, commercio e servizi. Per il settore industriale a fine 2011 è attesa una perdita di quasi 59mila unità (-1,2%); meglio i servizi che dovrebbero fermarsi a quota -29mila unità (-0,4%). Crollo invece per le imprese delle costruzioni (quasi 29mila posti in meno).

Nei servizi, l’unico settore che arriva a perdere un punto percentuale è relativo agli alberghi e ristoranti, mentre i tassi di variazione degli altri comparti sono compresi tra il -0,7% (servizi alle imprese) e il -0,2% (commercio al dettaglio). Unico segno più i servizi avanzati, dove le imprese pensano di incrementare di circa 1.500 unità i propri dipendenti.

lunedì 15 agosto 2011

LA PRESSIONE FISCALE VOLA AL 44,3%

“Grazie agli effetti della manovra correttiva di luglio e a quelli legati alla manovra bis approvata venerdi sera, nel 2013 la pressione fiscale si attesterà al 44,3%. Un livello mai raggiunto in passato che rischia di soffocare i timidi segnali di ripresa economica registrati negli ultimi mesi. Rispetto a quest’anno, nel 2013 il carico fiscale sui cittadini e le imprese aumenterà di +1,7”.
A lanciare l’allarme è il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi, che ha quantificato gli effetti fiscali delle manovre correttive approvate in queste ultime settimane.
La simulazione, segnalano dalla CGIA, è stata realizzato utilizzando le previsioni di finanza pubblica contenute del DEF 2011 (Documento di Economia e Finanza), ipotizzando che le maggiori entrate fiscali per gli anni 2012 e 2013 vengano aumentate dagli effetti fiscali previsti dalla manovra correttiva anticipata di un anno e dalla manovra bis approvata venerdì scorso
Da un punto di vista metodologico si è proceduto sommando le entrate fiscali che la manovra correttiva di luglio prevede per il 2012 (pari a 6.081 milioni di euro) con le nuove entrate previste dalla manovra bis. Vale a dire:
4 miliardi di euro provenienti dalla riduzione delle agevolazioni ed esenzioni fiscali e i 3 miliardi di euro che saranno recuperati dal contributo di solidarietà, dalla riforma della tassazione delle rendite finanziarie e dall’applicazione dell’addizionale IRES (ROBIN TAX) sulle imprese del settore energetico. Per il 2012 si sono considerate le medesime entrate fiscali previste per il 2014.
“Per stimare la pressione fiscale negli anni 2012 e 2013 – conclude Bortolussi - abbiamo classificato come entrata fiscale anche il gettito prodotto dalla futura riforma della assistenza sociale. Tale decisione è coerente con la norma di salvaguardia che prevede, nel caso di mancata attuazione della delega, che si proceda al taglio delle detrazioni e delle agevolazioni fiscali e quindi un conseguente aumento delle entrate fiscali. Nel caso la riforma assistenziale venisse attuata, si può ipotizzare che i 4 miliardi di gettito anticipati al 2012 e i 20 miliardi anticipati al 2013, si traducano in minori erogazioni ai cittadini e quindi vengano considerati nei bilanci pubblici come risparmi di spesa. In questa ultima ipotesi, la pressione fiscale potrebbe essere inferiore a quella ipotizzata nella nostra elaborazione”.