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sabato 20 ottobre 2012

CRISI E INDIFFERENZA



Aspettiamo...aspettiamo, perché noi tutti ci diciamo beh quello che sta succedendo in Italia non è un problema che abbiamo causato noi, ma bensì la nostra classe politica, quindi, se c’è qualcuno che deve fare qualcosa quelli non siamo noi, ma loro. Sbagliato, tutti sbagliamo se la pensiamo in questo modo e non è di certo così che i problemi in una famiglia si risolvono. E’ vero che la nostra classe politica da “buon padre di famiglia” dovrebbe prendere la situazione per le corna e cercare di risolverla, ma se noi componenti di questa famiglia vediamo che il “buon padre di famiglia” non ce la fa, cosa facciamo? Ci sediamo e stiamo a guardare o cerchiamo di aiutarci? Oppure aspettiamo di leggere sul giornale MORTO SUICIDA PERCHE’ TRAVOLTO DALLA CRISI? Una cosa è da dire, la classe politica cioè il buon padre di famiglia deve ascoltare i suoi figli e deve cercare di capire che i problemi che stanno vivendo sono reali, tangibili e deve cercare di fare in modo di risolverli concretamente, ma questo non succede, altrimenti non ci sarebbero sui giornali articoli che parlano di uomini che si è tolgono la vita perché oppressi dai problemi causati dalla crisi, da uno stato vessatore e prepotente che ti assesta il colpo di grazia proprio quando sei in difficoltà
La cosa che fa riflrttere è che nessuno parla della vita spezzata di un imprenditore, di uomo, di una famiglia spazzata via, quasi che il non parlarne potesse esorcizzare le paure, potesse allontanare da noi lo spettro delle nostre celate fragilità e di colpo messe a nudo da questa crisi, ma quando succede, la cosa più ingiusta della vita, mi vien da pensare,  è il modo in cui finisce e cioè nella totale INDIFFERENZA.
Tutto il sistema Italia ha fallito quando leggiamo sul giornale che un uomo si è tolto la vita per i problemi derivati dalla crisi che stiamo vivendo,  e quando questo accade è perché qualcuno si sente solo, abbandonato, fallito nel lavoro e come persona nei confronti di quelli che gli stanno attorno . Purtroppo non abbiamo un “buon padre di famiglia” che ci da il buon esempio a cui aggrapparci.  Da piccolo vedevo mio padre che faceva sacrifici per dare un futuro migliore ai suoi figli, rinunciava per se per aiutare e dare a noi.
Questo non l'ho mai visto fare dalla classe politica, soprattutto oggi che, se non per un senso etico del ruolo occupato, lo faccia almeno per un dovere di risarcimento  nei confronti dei cittadini per l'inettitudine dimostrata e per le nefandezze compiute.
Invece dalle istituzioni arrivano costantemente appelli che dicono: "dovete fare voi i SACRIFICI, dovete stringere i denti andare avanti". Ma queste parole per come la vedo io, stonano, sono inadeguate quando ci sono famiglie che vivono con 900 Euro al mese, imprenditori soffocati da tasse e strozzati dalle banche che chiudono bottega, ma che ulteriori sacrifici devono fare queste persone?

Com’è possibile che abbiano il coraggio di dire queste parole, di fare la morale agli altri, quando loro per primi vivono nel lusso, nel non sacrificio, in una condizione di privilegio mai guadagnato e allora mi chiedo perché ci devono trattare come non persone, e ci trattano da sudditi da spremere?
Alla fine la riflessione sul mio stato di "persona" mi porta a dire che la vita è dura ed è vissuta per la gran parte a fare sacrifici per un futuro migliore e se fallisci….cosa ottieni alla fine? INDIFFERENZA.


lunedì 25 giugno 2012

L’ambiguità della libertà politica: l’esempio del Cile

di Michele Silenzi

"l’inadeguatezza della disamina del ruolo della libertà politica, che in determinate circostanze può favorire le libertà economiche e civili, mentre in altri casi, al contrario, può soffocarle."

Come spesso capita, mi sembra che qui Friedman tocchi un punto estremamente attuale. Ritenere la libertà politica il punto di partenza per ogni possibile libertà civica ed economica è una gigantesca fanfaronata occidentale (europea in particolare). Non è un teorema sempre esatto che dalla libertà politica cadano sempre a pioggia tutte le altre. La libertà politica, nelle sue esasperazioni, può essere una struttura gravemente paralizzante.
L’ambiguità della libertà politica consiste nel dovere costantemente tentare di soddisfare tutte le parti presenti al contenzioso (è bene ricordare che noi siamo, rinomatamente, il Paese della concertazione totale). Per dovere venire incontro alle legittime rivendicazioni di diritti (e privilegi) delle varie parti, si rischia di perdere completamente di vista quello che è il vero interesse dei singoli ovvero, molto semplicemente, la libertà economica di ciascun individuo. Questa libertà viene costantemente bersagliata ed imbrigliata da un numero crescente di  cavilli, leggi e leggine create per soddisfare i singoli interessi di parte da un governo centrale gonfiato a dismisura dai vari attori di una parossistica libertà politica.
Nel disperato tentativo di preservare una libertà politica che ormai diventa simile al titano Crono che divora i suoi stessi figli, la libertà economica viene a trovarsi pericolosamente a rischio. Mi sembra sia proprio quello a cui stiamo assistendo da un certo tempo in Italia.
Cercherò di spiegarmi meglio attraverso un esempio storico. Il golpe di Pinochet in Cile nel 1973 era arrivato a seguito delle politiche promosse dal governo socialista di Salvador Allende che avevano generato una terribile stagflazione (bassa crescita ed iper-inflazione al 700% annuo). La dittatura di Pinochet coincise con una forte ripresa sul piano economico dovuta alle politiche liberiste dei cosiddetti Chicago Boys (giovani economisti cileni specializzati alla corte di Milton Friedman): tra gli altri ricordiamo Jorge Cauas e Sergio de Castro (ministri della finanze 1975-82), Miguel Kast ministro del lavoro ed in seguito governatore della banca centrale e Jose Pinera (che però aveva studiato ad Harvard) a cui si deve la creazione del sistema privato di previdenza sociale in Cile divenuto un modello per tanti altri Paesi nel mondo.
Questi uomini giovani e talentuosi, non appena compiute le riforme necessarie per restituire dignità economica e quindi civica al Cile, lasciarono i loro incarichi per impegnarsi a ridare al Paese ciò che a quel punto mancava: la libertà politica. La strutturale riforma economica (che era essenzialmente una riforma sociale) non poteva essere senza intoppi come quello della grave crisi bancaria del 1982 dovuta principalmente al peg del Pesos cileno con il Dollaro. Però, grazie a queste riforme, entro il 1990 il Paese recuperò il gap che le politiche di Allende avevano scavato con gli altri paesi del Sud America per poi ampiamente superarli in termini di reddito pro capite. Nello stesso 1990, grazie ad un referendum contro Pinochet, il Cile recuperò anche la sua libertà politica.
Questo sommario racconto dell’esperienza cilena non vuole essere un elogio della sospensione delle libertà democratiche ma un invito a non lasciare che gli individui e loro libertà civiche ed economiche vengano soffocati da una parossistica libertà politica che in Europa (ed in Italia in particolare) sembra diventato un gigantesco Moloch forgiato da sempre più intricate maglie burocratiche che paralizza l’agire umano.
Recuperare la forza di volontà individuale, riuscire a pensare oltre uno stato macroscopico ed invadente a cui si deve prestare un indiscutibile ossequio è necessario per rinnovare e rilanciare la dignità di un’arte di governare che ricerca solo il soddisfacimento del proprio infinito (e quindi inconcludente) pluralismo che sempre di più diventa un intralcio alla libera determinazione di sé ed al perseguimento della libertà economica. Quando i diritti sono troppi iniziano a mutarsi in una gabbia di doveri.

mercoledì 30 maggio 2012

Le parole del procuratore di Modena sui capannoni, che orrore

 

Già stamane nella trasmissione su radio24 ho subito cercato di spiegare l’infondatezza di molte reazioni al sisma emiliano, improntate all’attacco a testa bassa contro gli imprenditori che avrebbero chiamato i dipendenti a lavorare a forza, e natur5almente dopo aver irresponsabilmente risparmiato sui capannoni sbriciolatisi. Ricordo a tutti che quella parte di territorio italiano prima del 2003 non era classificato sismico, ergo per questo si hanno capannoni prefabbricati di costruzione con caratteristiche costruttive di non tenuta al sisma, che in realtà però sono perfettamente in regola. Perché la norma è diventata coattiva solo dopo il sisma in Abruzzo del 2009 ma per le nuove costruzioni, non imponendo di fatto l’adeguamento sismico sul costruito ad eccezione di alcuni casi. La maggior parte delle scuole, palestre ed edifici pubblici ricadono nella medesima situazione. Questi sono fatti, non opinioni, di fronte ai quali il riflesso condizionato ostile all’impresa è invece partito di scatto. Perché è ideologico, non basato su fatti concreti e responsabilità iondividuate. E’ moro anche un’imprenditore, ieri, insieme agli operai. Di fronte a questo, mi ha lasciato stupefatto, scandalizzato e pensoso la dicghiarazione  Il Procuratore capo di Modena, Vito Zincani, nell’annunciare  l’apertura di un inchiesta relativa alle vittime dei crolli avvenuti in provincia di Modena a causa del sisma di ieri. Il Procuratore sui crolli dei capannoni ha detto che la “politica industriale a livello nazionale sulla costruzione di questi fabbricati è una politica suicida”. Bene, c’è già la sentenza. Prima di ogni verifica.  Un ottimo contribuito alla giustizia basata sui fatti e non sulle opinioni. Che orrore.

domenica 29 aprile 2012

Accesso al credito, per le piccole imprese è un tabù

Per la prima volta dal 2008, sono piu' numerose le imprese che ottengono meno credito di quello richiesto o non lo ottiene affatto rispetto a quelle che si sono viste accordare il finanziamento. E' quanto emerge da una ricerca dell'Osservatorio sul credito per le imprese del commercio, del turismo e dei servizi nel primo trimestre del 2012 realizzato da Confcommercio-Imprese per l'Italia: sono calate le imprese in grado di fronteggiare il proprio fabbisogno finanziario senza alcuna difficolta' (sono il 36,1% contro il 41,8% del trimestre precedente) e, per la prima volta dal 2008, sono piu' numerose le imprese che ottengono meno credito di quello richiesto o non lo ottengono affatto (quasi il 37%) rispetto a quelle che si sono viste accordare il finanziamento (34,2%); nel Mezzogiorno, in particolare, questa percentuale raggiunge la punta massima del 44,4%.

In ogni caso, complessivamente solo il 18,7% delle imprese ha fatto richiesta di credito e, di queste quasi una su cinque e' ancora in attesa di conoscere l'esito della propria domanda, una quota molto alta dovuta, forse, alla cautela con la quale le banche si stanno muovendo in questo periodo nei confronti delle imprese; peggiora, infine, il giudizio delle imprese per quanto concerne il costo dei finanziamenti, il costo delle cosiddette "altre condizioni" e il costo dei servizi bancari; ma e' negativa anche la percezione riguardo alla durata temporale del credito e alle garanzie richieste da parte delle banche a copertura dei finanziamenti concessi.

domenica 15 aprile 2012

IMU, accise, IVA, bye bye Italia!

Tasse, tasse e ancora tasse. Non era ancora finita la paura per una nuova tassa di due centesimi sugli SMS, che sembra arrivare una nuova stangata sulla benzina.
Il finanziamento alla protezione civile dimostra che il Governo è in grado di agire solo da un lato: quello delle entrate. La spending review del Ministro Giarda serve a ben poco, se ogni volta che si parla di manovre finanziarie, si sentono solo nuove tasse.
In questo caso la proposta è quella di aumentare di cinque centesimi l’accisa sui carburanti. Un’altra volta, dato che negli ultimi dodici mesi gli incrementi delle tasse sulla benzina hanno portato il prezzo vicino ai 2 euro al litro.
È mai possibile che si agisca sempre dal lato dell’entrate e mai da quello delle uscite?
La Spagna sarà in pericolo a causa della debolezza del sistema bancario, ma perlomeno Mariano Rajoy agisce principalmente dal lato del taglio delle spese e non ha toccato l’IVA.
In Italia invece, il Governo Monti, seguendo la scelta del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti si appresta ad alzare l’IVA fino al 23 per cento. Siamo ormai ai livelli del Portogallo e siamo a quattro punti percentuali in più rispetto a pochi mesi fa (il 21 per cento in più).
Oltre all’IVA c’è anche da ricordare la nuova IMU, che “per fortuna” potrà essere probabilmente pagata in tre rate. Come dire, morire dissanguati piuttosto che d’infarto. Purtroppo è l’economia italiana che è sull’orlo del collasso totale.
Come faranno le famiglie e le imprese a resistere? Come potranno pagare nei prossimi mesi una tassazione che supera abbondantemente il 53 per cento in termini reali di quanto si produce?
La situazione economica non migliora e il peggio non è alle spalle, bensì deve ancora arrivare. Non è un caso che la tensione sullo spread italiano rimane molto elevato. Il debito a dieci anni paga interessi pari al 200 per cento superiori a quelli di soli 12 mesi fa.
E il debito continua a salire, nonostante il continuo aumento della tassazione. È mai possibile? Certo, dato che come ricorda giustamente il professore Ugo Arrigo, con una contrazione del PIL nominale serve ben poco avere un avanzo primario.
Si parla ormai di una caduta del PIL di oltre 2 punti percentuali nel 2012, dopo che già nella seconda parte dell’anno l’economia italiana era in recessione. Con queste previsioni è impossibile arrivare al pareggio di bilancio e saranno necessarie altre manovre finanziarie tassaiole, come ricorda Oscar Giannino su queste colonne, mentre il debito corre oltre i 120 punti percentuali sul PIL e si accinge a sfondare quota 2000 miliardi di euro.
Dove troveranno gli italiani altre risorse? Non le troveranno.
Forse, invece, dovrebbe essere un Governo tecnico a trovare altre risorse, però questa volta non derivanti da nuove tasse. Non è facile, ma i tagli della spesa si stanno attuando in tanti paesi (non certo in Grecia dove in realtà il paese non è stato in grado di tagliare quasi nulla). Ed è mai possibile che i tanti carrozzoni di Stato continuino a rimanere stretti nelle mani della politica? La parola privatizzazione non dice nulla?
Se tagli e privatizzazioni non saranno attuati velocemente, si potrà purtroppo dire: bye bye Italia.

Andrea Giuricin
chicago blog

domenica 1 aprile 2012

Allarme fallimenti: toccato il record nel 2011, oltre 11.600

 

Nel 2011 ben 11.615 aziende hanno chiuso i battenti per fallimento, un dato mai toccato in questi ultimi 4 anni di grave crisi economica. Un record che ci segnala quanto siano in difficoltà le imprese italiane, soprattutto quelle di piccole dimensioni che, come ricorda la CGIA, continuano a rimanere il motore occupazionale ed economico del Paese.
“La stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti e il forte calo della domanda interna -  segnala il segretario della CGIA di Mestre Giuseppe Bortolussi – sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli  a portare i libri in Tribunale. Purtroppo, questo dramma non è stato vissuto solo da questi datori di lavoro, ma anche dai loro dipendenti che, secondo una nostra prima stima, in almeno 50.000 hanno perso il posto di lavoro”. 
Ma, ricordano dalla CGIA, il fallimento di un imprenditore non è solo economico, spesso viene vissuto da queste persone come un fallimento personale che, in casi estremi, ha portato decine e decine di piccoli imprenditori a togliersi la vita.
“La sequenza di suicidi e di tentativi di suicidio avvenuta tra i piccoli imprenditori in questi ultimi mesi – prosegue Bortolussi – sembra non sia destinata  a fermarsi. Solo in questa settimana, due artigiani, a Bologna e a Novara, hanno tentato di farla finita per ragioni economiche. Bisogna intervenire subito e dare una risposta emergenziale a questa situazione che rischia di esplodere. Per questo invitiamo il Governo ad istituire un fondo di solidarietà che corra in aiuto a chi si trova a corto di liquidità”.
Infine, il segretario della CGIA di Mestre ritorna sui dati pubblicati ieri dal ministero delle Finanze.
“Attenti a dare queste chiavi interpretative fuorvianti e non corrispondenti alla realtà. Le comparazioni vanno fatte  tra soggetti omogenei, ad esempio tra artigiani e i loro dipendenti. Ebbene, se confrontiamo il reddito di un dipendente metalmeccanico con quello del suo titolare artigiano, quest’ultimo dichiara oltre il 40% in più, con buona pace di chi vuole etichettare gli imprenditori  come un popolo di evasori”. 



IMPRESE: N°  FALLIMENTI (anno 2011) 
  N. fallimentiFallimenti ogni 10.000 imprese attive
 LOMBARDIA           2.61331,5
 LAZIO               1.21526,1
 FRIULI-VENEZIA GIULIA25025,4
 MARCHE               39825,0
 VENETO              1.12224,4
 TOSCANA             84322,9
 UMBRIA              18522,1
 CAMPANIA            1.00821,3
 EMILIA ROMAGNA      89920,9
 PIEMONTE             85720,4
 LIGURIA             23516,4
 CALABRIA            24915,8
 SICILIA             60115,8
 PUGLIA              52915,6
 MOLISE              4915,2
 SARDEGNA            21314,4
 ABRUZZO             18013,5
 TRENTINO A.A.12211,9
 VALLE D’AOSTA       97,3
 BASILICATA          387,0
 ITALIA11.61521,9
    
    
 Elaborazione Ufficio Studi CGIA Mestre

domenica 18 marzo 2012

IL MADE IN ITALY E’ MALATO, SI PUO’ CURARE?

Il modo sbagliato per affrontare la crisi è pensare che sia arrivata nel 2008, per via delle ripercussioni sull’economia e sul lavoro della situazione finanziaria mondiale. È una litania recitata a sproposito, che il governo Monti sembra non pronunciare. A ragion veduta: l’economia italiana è la penultima al mondo per crescita negli ultimi dieci anni, mentre nei vent’anni trascorsi il nostro sistema economico è cresciuto la metà degli altri paesi occidentali. Un rallentamento vistoso e progressivo, che la crisi finanziaria globale ha semplicemente reso ancora più evidente, mostrando come l’inadeguatezza della nostra classe politica si sia accompagnata anche a scelte sbagliate di molte banche ed imprese italiane.
Il Made in Italy è malato da tempo, colpito da un tumore che ha aggredito le basi del nostro saper fare e della capacità competitiva del sistema delle imprese. Andare all’origine, conoscere le cause del morbo che impedisce la crescita è fondamentale: non c’è crescita possibile senza la ripresa delle nostre attività produttive sul mercato.
I dati regionali relativi agli aspetti della competitività e dei fattori di innovazione ci spiegano molti dei fenomeni all’origine della crisi. La capacità innovativa è indice dello stato di salute di una economia e mostra quindi come e dove siano individuabili gli aspetti di forza e debolezza delle nostre economie territoriali. I report europei segnalano come l’Italia si presenti ancora in condizioni abbastanza buone negli indicatori che riguardano la tenuta finanziaria delle imprese, le politiche di sostegno e nell’area relativa alle potenzialità economiche del mercato. L’Italia resta ancora nei suoi fondamentali un paese in grado di generare ricchezza, anche se meno che nel passato, non per effetto della crisi, ma per l’indebolimento della capacità di innovazione. Su questo le rilevazioni economiche sono impietose e mostrano la nostra progressiva perdita di anticorpi di questi anni.
L’Italia è infatti sempre più debole nelle risorse umane, negli investimenti aziendali, nel sistema delle reti, nell’imprenditorialità, nei fattori innovativi. L’Italia non è più un paese in grado di generare lavoro di qualità, rispetto a quanto siamo stati in grado di fare nel nostro recente passato.
La crisi del 2008 non ha fatto che accentuare questi fenomeni.
I dati ci dicono che l’Italia negli ultimi dieci anni, rispetto agli altri paesi occidentali, ha investito poco e male proprio sugli elementi di fondo della capacità competitiva. Siamo al sedicesimo posto in Europa per innovazione e ricerca, mentre sulla formazione, l’istruzione ed il funzionamento del mercato del lavoro siamo addirittura precipitati secondo l’Ocse al ventiquattresimo posto sui ventisette paesi dell’Unione Europea. Il declassamento della nostra solidità finanziaria delle agenzie di rating si è quindi semplicemente allineato al declassamento della nostra posizione rispetto ai fondamentali dell’economia reale, che non riguardano tanto gli aspetti finanziari, ma la capacità d’agire, la formazione, la ricerca, il lavoro, la qualità dei servizi.
È quindi piuttosto paradossale che nel paese del Made in Italy faccia più notizia il rating finanziario che il livello della nostra competitività. Eppure le basi della nostra economia, su cui intervenire per stimolare la crescita riguardano proprio il “saper fare”, come aggiornare ed innovare le nostre competenze ed i nostri prodotti, per crescere sul mercato. Sono competenze e conoscenze che spesso riguardano le vocazioni produttive dei nostri territori e che si sono sviluppate a volte durante secoli. Alimentare la nostra cultura del lavoro significa intervenire per aggiornare saperi spesso antichi, attraverso tecnologia, marketing e ricerca.
Il declino di questi anni è legato all’indebolimento delle reti di impresa, dei distretti specializzati del Made in Italy. Dieci anni fa i sistemi distrettuali, nelle diverse forme di aggregazione, erano circa duecento, oggi sono intorno ai centoquaranta. Se le reti delle nostre piccole imprese si sono indebolite è anche perché spesso operano come fornitrici di grandi marchi, la cui politica negli anni scorsi è stata spesso legata più ad obiettivi speculativi che al rafforzamento delle proprie posizioni di mercato.
Con le grandi imprese a capo della filiera produttiva poco impegnate ad investire sui prodotti e sul capitale umano, le reti di piccole imprese e dell’artigianato di qualità si sono trovate spesso sole, a dover reinventare il proprio mercato. Senza politiche di sviluppo e sistemi territoriali organizzati non è però facile per le nostre piccole imprese emergere e competere da sole, mentre le grandi imprese delocalizzano ed operano con più attenzione al mercato finanziario che a quello del prodotto.
È quello che è accaduto in parte al sistema moda: mentre le grandi famiglie proprietarie agivano e compravano nella privatizzazione degli ex monopoli pubblici, altrove gli imprenditori continuavano soprattutto a far bene il loro mestiere, togliendo ingenti quote di mercato a chi intanto aveva altri obiettivi.
È il caso di Amajo Ortega, schivo industriale tessile spagnolo, che proprio mentre i protagonisti del tessile italiano entravano in crisi, è diventato l’uomo più ricco d’Europa, vendendo prodotti con marchi (come Zara, Massimo Dutti, Stradivarius) e soprattutto un design che richiamano proprio lo stile italiano. L’inizio della crisi del sistema dei grandi marchi è iniziato proprio quando i nostri imprenditori leader hanno incominciato a spendere i guadagni non per tenere le posizioni sul mercato, ma per far incetta di beni pubblici ed entrare nel gotha finanziario.
Familismo e speculazione hanno portato alle note vicende degli ultimi anni, con grandi imprenditori in carcere per crack finanziario e tanti marchi importanti ceduti all’estero. Da Gucci a Brioni: il fatto che il Made in Italy diventi Made in France smentisce l’assunto che sia solo un problema di concorrenza con la Cina o con il terzo mondo ed evidenzia l’inadeguatezza del sistema familiare che regge le sorti della nostra economia. In molti casi la delocalizzazione all’estero è solo l’anticamera del fallimento di imprese che non sono riuscite a reggere sulla sfida della qualità, perché non hanno investito.
Il livello di investimento medio delle imprese italiane per ricerca ed innovazione tecnologica è tra i più bassi d’Europa: questo spiega le ragioni della difficoltà di molte aziende, chiamate a competere per prodotti di basso livello con paesi in cui il costo del lavoro è molto inferiore al nostro. La competizione al ribasso è una sfida in cui siamo destinati a soccombere.
Una ricerca dell’Università Bocconi (pubblicata nel libro Classe dirigente di Boeri, Merlo e Prat) chiarisce il motivo di queste scelte: la logica del capitalismo familiare italiano funziona proprio come la nostra politica ed è intrisa di cortigianeria, si valorizzano i manager non tanto per i risultati, ma per la fedeltà alla famiglia ed all’assetto proprietario.
È quindi possibile ripartire solo se si interviene su alcune questioni di fondo, ricominciando da ciò che nonostante tutto continua a funzionare. In questi anni di disastri, se analizziamo i dati InfoCamere, ci sono circa duemila imprese italiane che hanno comunque continuato a crescere, ad investire e ad assumere. Sono imprese molto diverse tra loro, il denominatore comune sono proprio gli investimenti che hanno fatto in formazione, ricerca, marketing.
Perché questa linea sia seguita dal nostro sistema economico ci sono due “rivoluzioni culturali” che fanno fatte, seguendo l’esempio europeo. Bisogna selezionare e disintermediare.
Le politiche e le risorse devono selezionare e non garantire sempre, comunque e chiunque. Il sistema degli incentivi italiano è al tempo stesso lento, burocratico, ma poco selettivo. Gli incentivi vanno finalizzati: ai progetti, all’innovazione, all’occupazione. Se le istituzioni italiane non erogano servizi mirati, ma alimentano solo burocrazie, è più facile non selezionare: fanno bandi in cui l’agevolazione finisce al primo che arriva allo sportello. È una pratica diffusa e pericolosa, che non valuta il merito e lo sforzo di innovazione delle imprese che andrebbero premiate.
Solo la selezione, in un sistema come il nostro che ha diversi strumenti di incentivazione e di sostegno allo sviluppo, permette infatti all’impresa di finalizzare lo strumento al risultato, evitando per esempio di perpetuare uno dei vizi del nostro sistema di aiuti: utilizzare le agevolazioni per chi assume con lo scopo di abbattere il costo del lavoro, che in Italia è di circa otto volte superiore a quello dei paesi emergenti.
In questo modo è poi possibile disintermediare: attribuire incentivi, servizi e risorse in modo diretto, magari con istituzioni in grado di promuovere sul territorio quei venture capital che in Italia latitano e di cui le nuove generazioni prive di capitale famigliare hanno bisogno per fare impresa.
Ci vuole però competenza ed innovazione anche nelle istituzioni, se vogliamo che questo criterio sia presente nell’economia reale. Cambiare la logica del nostro welfare per il lavoro e delle nostre politiche per lo sviluppo, costruite per alimentare intermediazioni più che per erogare servizi e strumenti al destinatario, è fondamentale per riprendere quella strada del saper fare che il nostro umanesimo ha avviato secoli fa, promuovendo le basi culturali ed economiche di quel sistema che chiamiamo Made in Italy e che il mondo ha spesso ammirato.
di Romano Benini

sabato 25 febbraio 2012

Pensiero di un imprenditore del nord est

Propongo un post scritto e pubblicato dall'amico Stefano Turchetti sul suo blog "L'ultimo Camerlengo" perché significativo dello stato d'animo di molti imprenditori di quello che è stato il mitico nord est.  Mi ci sono riconosciuto nel leggere lo sfogo dell'imprenditore, in quel sentimento di rammarico misto a rabbia che scaturisce nel fare impresa oggi. Come si può andare avanti soffocati dalle tasse, dalla mancanza di credibilità nei confronti del mondo bancario e additati come evasori da campagne mediatiche scellerate messe in campo da chi dovrebbe per primo farsi un esame di coscienza? All'imprenditore tutta la mia comprensione e buona lettura.

LO SFOGO DI UN AMICO, IMPRENDITORE DEL MITICO NORD EST

Lo riporto così, come l'ho letto.
Sono convinto che il mio amico Mirko non è originale in questa scelta.
Però è SUO il tono accorato, la resa a questa sorta di migrazione sia pure da imprenditore, non certo con la valigia di cartone, SUA la  rabbia - dolore  per doversi allontanare per così tanto tempo dalla sua casa, dalla sua famiglia.
Il bello è che i motivi che spingono Mirko a fare impresa FUORI dell'Italia, portando quindi anche risorse e creando opportunità di lavoro all'estero, sono ben noti e sottolineati da tanti osservatori, studiosi, economisti, ben più noti e importanti di me e di lui: troppe tasse, troppa burocrazia, troppa rigidità del lavoro.
Ma dirlo pare serva a nulla.
Bé a Mirko e ai suoi  la più grande fortuna del mondo.


"Ultimamente faccio molta fatica a leggere i tuoi post Stefano, la ragione e la seguente, mi lacerano a tal punto lo stomaco che perdo l'appetito, ormai il tuo/ nostro urlo di protesta ha raggiunto il limite estremo di sopportazione, oggi mentre ti sto scrivendo abbiamo deciso di aprire una nuova società in un paese dove chi fa impresa viene accolto a braccia aperte, avremo il carico fiscale molto ma molto basso, lo stato farà in modo di espletare tutte le pratiche x inizio attività in 2 gg,certo questo mi porterà una lontananza da casa di almeno 4 giorni la settimana, ma dopo 26 anni di lavoro non ce la faccio proprio più a essere trattato come un vacca da mungere, quando siamo partiti io mio fratello e mio padre nel lontano 86 MAI avrei pensato di andarmene via da questo paese culla della Pmi, ma adesso basta, se tutto andrà come penso entro agosto tutto sarà pronto e sarò a 1 ora di volo da Brescia ma soprattutto in un paese che mi accoglierà come una fonte di ricchezza non come un delinquente evasore!!!!! In più mi è ritornata quella voglia di costruire di fare impresa, cosa che mi era passata da molti anni a sta parte,se hai voglia di ricominciare non c'e posto migliore del......... Ti racconterò tutto quando sarà iniziato il mio viaggio"

giovedì 23 febbraio 2012

Il profilo dei nuovi imprenditori italiani nel 2011

imprenditore Un terzo delle imprese italiane nate nel 2011 ha sede nel Mezzogiorno. A fondarle, in 3 casi su 4 è una persona di sesso maschile e per il 70% sono bastati 10mila euro per partire. L’obiettivo è la soddisfazione personale e professionale (lo afferma più del 57% di coloro che  hanno deciso di fondare, da titolari o da soci di maggioranza, una nuova azienda). E’ quanto emerge dall’indagine di Unioncamere su un campione di circa 9mila imprese attive nate nel corso del 2011 e per le quali è possibile identificare il settore di appartenenza, rappresentativo di circa 176mila nuove imprese iscritte nel corso dell’anno.
Si registra una quota di nuove iniziative imprenditoriali al Sud e nelle Isole pari al 30,9%, davanti a Nord Ovest (28,6%), Centro (21%) e Nord Est (19,5%). Nell’ipotizzare il futuro e la crescita dimensionale dei propri progetti i neoimprenditori italiani sono però piuttosto cauti: l’88,7% delle aziende non prevede la necessità di assumere personale nel breve periodo, preferendo aspettare i riscontri che il mercato darà alla nuova iniziativa di business. Solo le realtà che nascono con più di 10 addetti (la minoranza) prevedono di aumentare il numero degli occupati. Le opportunità imprenditoriali sono colte sempre più frequentemente dai giovani: infatti, supera il 26% (2 punti in più rispetto al 2010) l’incidenza degli under 30 e un ulteriore 19,1% di neo-imprenditori si colloca nella fascia di età tra i 31 e i 35 anni. Il restante 54,5% è da attribuire agli ultra 35enni, che si avvalgono maggiormente dell’esperienza nell’imboccare la strada verso la realizzazione del proprio progetto.
I nuovi imprenditori fanno affidamento su mezzi propri in 8 casi su 10, appoggiandosi semmai a finanziamenti ricercati nella cerchia di conoscenze personali o, in seconda battuta a prestiti bancari. L’investimento iniziale per dare avvio ad una nuova attività non supera i 10 mila euro nel 72,1% dei casi, quota che sale al 75,3% se l’impresa è aperta da individui al di sotto dei 35 anni.

http://www.fondazioneimpresa.it/

giovedì 9 febbraio 2012

In italia 1 impresa su 10 a rischio d’insolvenza

 

debiti Un’azienda su dieci è ad alto rischio di non pagare i fornitori. Più esposte le microimprese, anche se l’affidabilità registra un calo generalizzato, mentre le difficoltà maggiori si registrano nel settore dell’edilizia e del commercio all’ingrosso. E’ quanto emerge dall’Osservatorio sulla rischiosità commerciale realizzato da Cribis D&B, società del Gruppo Crif, che analizza il grado di affidabilità delle imprese italiane e la loro capacità di fronteggiare gli impegni presi nei confronti dei propri fornitori. Per le stime l’istituto si è affidato a numerose variabili aziendali, tra cui gli indici di bilancio, le esperienze di pagamento, la forma giuridica e le informazioni negative raccolte.
Allo scorso dicembre, l’88% delle imprese dell’edilizia risultava a rischio d’insolvenza medio-alto, seguito dall’84% del commercio all’ingrosso e dall’82% del trasporto; l’industria manifatturiera si ferma al 63%. In coda l’agricoltura con un profilo di rischio ridotto, appena il 13%. Complessivamente, circa l’11% delle imprese italiane ha registrato un’alta propensione a generare insoluti commerciali rispetto ai fornitori nei 12 mesi successivi. Un dato in crescita rispetto alle rilevazioni dei trimestri precedenti: a fine 2010 le imprese più rischiose rappresentavano, infatti, il 9,96% del totale. Per il resto, oltre il 45% del totale delle imprese ha un livello di rischiosità medio, per il 38% è medio-basso, mentre appena il 5,8% si è collocato nella classe di rischiosità bassa.
L’analisi di CRIBIS D&B mette in evidenza come, a 3 anni dall’inizio della crisi, le difficoltà delle imprese italiane non siano assolutamente superate. Al contrario, molte imprese che a fatica erano riuscite a non soccombere durante la prima fase della congiuntura economica negativa, anche grazie all’impiego diretto di capitali propri, sono entrate in crisi nel corso del 2011 per l’impossibilità di apportare nuove risorse in grado di sostenere ulteriormente l’attività.

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mercoledì 1 febbraio 2012

Per 1,5 milioni di imprenditori l’accesso al credito è un miraggio

accesso-della-carta-di-creditoL’Istituto SWG ha effettuato un’indagine, divulgata nel mese di gennaio 2012, sul raporto tra banche e imprese di piccole e medie dimensioni. Secondo le evidenze emerse dallo studio, la concessione di un prestito o di una linea di credito per una parte consistente delle PMI italiane, ovvero per quei 4 milioni e 100 mila imprenditori che rappresentano il 95,3% del sistema imprenditoriale italiano, è sempre più un miraggio lontano.
Oltre 1 milione e mezzo di imprenditori, pari al 35% delle imprese sotto i 50 dipendenti, dichiara di aver avuto difficoltà ad accedere al credito. Il 78% delle piccole e medie imprese ritiene invece l’attuale stretta creditizia considerevolmente peggiore rispetto a quella, già problematica, del 2008 e 2009. A mostrare segni di preoccupazione sono gli imprenditori di tutte le aree del paese, con particolare riferimento al Sud Italia (83%) e alle imprese che operano nel settore costruzioni (82%). Le difficoltà sembrano inoltre essere evidenti per le microimprese (numero di addetti inferiore a 10), che intravedono una situazione aggravata per il 79%.
Il 56% degli imprenditori denuncia l’irrigidimento dei criteri di selezione per la concessione di linee di credito delle istituzioni bancarie. Anche in questo senso, le condizioni peggiori da affrontare sono riscontrate da chi opera nel meridione (66%) e da chi possiede un’impresa di costruzioni (70%). Le banche, invece, sembrano essere state più permissive con chi lavora nella Pubblica Amministrazione (l’evidenziazione dell’irrigidimento si ferma al 41%). Pessime le previsioni per il futuro per la maggioranza degli intervistati (58%): risulta netta la previsione di un peggioramento dei rapporti con le banche.

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 25 gennaio 2012

lunedì 23 gennaio 2012

Imprese: un fallimento su tre è causato dai ritardi nei pagamenti

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Tra il 2008 ed il 2011 hanno fallito oltre 39.500 imprese. Bortolussi : “C’è il pericolo che si verifichi un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico

Nel 2011, quasi un fallimento su tre, stima la CGIA di Mestre, è stato causato dai ritardi nei pagamenti. A fronte di 11.615 imprenditori italiani che hanno portato i libri contabili in Tribunale, circa 3.600 (pari al 31% del totale) lo hanno fatto a causa dell’impossibilità di incassare in tempi ragionevoli le proprie spettanze. Una situazione, purtroppo, che  non ha eguali in Europa.

Come si è giunti alla soglia del 31% ?
Secondo i dati Intrum Justitia, la percentuale di aziende che in Europa falliscono a causa dei ritardati pagamenti è pari al 25% del totale. Se teniamo conto che nel nostro Paese i ritardi superano la media europea di 26 giorni, la CGIA stima che la nostra media nazionale oltrepassa il 30% del totale.
Indubbiamente anche la crisi economica ha contribuito ad aggravare questa situazione. Infatti, il trend dei ritardi avvenuto in Italia in questi ultimi 4 anni è quasi raddoppiato (+97,5 %). Se, infatti, nel 2008 la media era di 27 giorni, l’anno scorso gli imprenditori italiani sono stati pagati mediamente con 53 giorni di ritardo. Se poi teniamo conto che i tempi medi effettivi di pagamento che si registrano in Italia sono i più elevati d’Europa (180 giorni se il committente è la Pubblica amministrazione, 103 giorni se il committente è un’azienda privata), la situazione che si è sviluppata in questi ultimi ani è drammatica: tra il 2008 ed il 2011  hanno fallito oltre 39.500 aziende.

“Pur riconoscendo che questo Governo ha iniziato con il piede giusto  – commenta Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre –  è necessario che recepisca quanto prima la Direttiva europea contro il ritardo nei pagamenti. La mancanza di liquidità sta facendo crescere il numero degli ‘sfiduciati’, ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso, nonostante i grossi problemi che si sono accumulati in questi ultimi anni, di non ricorrere all’aiuto di una banca. E’ un segnale preoccupante che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al  credito, con il pericolo che ciò dia luogo ad un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico”.


Infine, sottolineano dalla CGIA,  a livello territoriale è la Lombardia la Regione che ha subito il numero più elevato di fallimenti, sia in termini assoluti, sia quando si prende in considerazione l’incidenza ogni 10.000 imprese attive.   L’anno scorso 2.613 imprenditori lombardi hanno portato i libri in Tribunale: praticamente ci sono stati 31,5 fallimenti ogni 10.000 aziende attive.

martedì 10 gennaio 2012

PMI NELLA MORSA DELLE BANCHE, FUTURO NERISSIMO

 

 

di REDAZIONE L'INDIPENDENZA QUOTIDIANO ONLINE
Le piccole e medie imprese nella morsa delle banche: per un milione e mezzo di imprenditori farsi concedere un prestito o aprire una linea di credito è una “chimera”. E’ quanto rileva una ricerca della Cna sul credito alle Pmi. La stretta delle banche risulta “forte” per il 78% degli intervistati. Gli istituti, spiega la confederazione degli artigiani, hanno irrigidito il loro comportamento nel corso dell’ultimo anno e la situazione è ben peggiore rispetto al periodo nero del 2008. Un terzo delle imprese ha poi avuto difficoltà ad accedere a muti, finanziamenti e fidi. Quasi otto piccoli e medi imprenditori su dieci guardano con preoccupazione al rapporto con le banche attuale e, per la maggioranza degli intervistati, nei prossimi mesi la situazione peggiorerà ulteriormente. A essere in apprensione sono gli imprenditori di tutte le aree del paese, con punte acute al Sud (83%) e tra coloro che operano nelle costruzioni (82%). Le difficoltà sembrano essere più evidenti per le micro imprese con un numero di dipendenti che va da 1 a 9. I criteri applicati per la concessione dei crediti o per l’apertura di linee di credito si sono notevolmente irrigiditi secondo il 56% degli imprenditori. Anche in questo caso le condizioni più aspre sono quelle evidenziate da chi vive nel Mezzogiorno (66%) e da chi ha un’impresa di costruzioni (70%), mentre le banche sembrano aver avuto un atteggiamento un po’ più morbido, ma comunque non accomodante, con chi lavora nella pubblica amministrazione (la sottolineatura dell’irrigidimento si ferma al 41%). “Le previsioni per il futuro sono nere, anzi nerissime – afferma la Cna – poche le speranze di miglioramento. Anzi, nella maggioranza degli intervistati (58%), è netta la previsione di un peggioramento dei rapporti con le banche. Da un punto di vista di dimensione aziendale, il futuro sembra essere particolarmente critico per le aziende medie (20-49 addetti) e per le micro-imprese”.

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giovedì 5 gennaio 2012

Allarme Cgia: le imprese italiane avanzano 40 miliardi di euro dalle As


Nei confronti delle imprese private, la CGIA di Mestre stima che i mancati pagamenti delle Asl e delleAziende ospedaliere hanno raggiunto, e probabilmente anche superato,  la soglia dei 40 miliardi di euro, il 70%  dei quali  è in capo alle strutture ospedaliere del Centro-Sud.


Una cifra imponente che si è accumulata negli anni a seguito dei ritardi con i quali la sanità salda i propri fornitori. Al Sud la situazione più drammatica: per quanto riguarda le forniture dei dispositivi medici, nei primi 11 mesi del 2011 i tempi medi di pagamento in Calabria hanno raggiunto i 925 giorni; 829 sono i giorni registrati in Molise; 771 in Campania e 387 nel Lazio. Le oasi più felici, invece,  sono le sanità  della Lombardia (112 giorni), del Friuli Venezia Giulia  (94 giorni) e del Trentino Alto Adige (92 giorni).

A livello medio nazionale il dato ha raggiunto i 299 giorni. Con l’avvento della crisi, l’allungamento dei tempi di incasso delle fatture emesse dalle aziende fornitrici è aumentato in quasi tutte le Regioni, con una punta di 234 giorni registrata in Calabria. Dal 2009 al 2011, solo sei Regioni hanno accorciato i tempi: la Valle d’Aosta ed il Trentino A.A. (-5 giorni), il Lazio (-9), la Lombardia (-13), la Basilicata (-48) e la Puglia (-92).

Per chi lavora con le Asl – dichiara Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre – l’attesa del pagamento è diventata una vera e propria ‘via crucis’. Per  ricevere i soldi delle forniture di Tac, siringhe, farmaci, servizi di lavanderia, pulizie, mense e servizi di sterilizzazione bisogna attendere tempi biblici. Nel frattempo, le imprese che subiscono un aggravio di oneri connessi all’esposizione verso il sistema bancario, devono sostenere anche una serie di costi amministrativi per  sollecitare i pagamenti, senza contare che ancora una volta sono le piccole imprese a subire in misura maggiore gli effetti negativi del costante deterioramento della situazione di cassa degli Enti sanitari”.


A fronte di questa situazione, la CGIA rivolge un invito al Premier, Mario Monti, di  recepire in tempi brevi la Direttiva Europea contro i ritardi   dei pagamenti che prevede, nelle transazioni commerciali tra imprese private e tra imprese e Pubblica Amministrazione, il pagamento entro 30 o al massimo 60 giorni dalla data di ricevimento della fattura.


Tempi medi di pagamento della Sanità alle imprese (*)

In giorni (**)

Rank dei peggiori pagatori
Regioni
2009
2010
2011 (***)
Var. 
2009
1
CALABRIA
691
804
925
+234
2
MOLISE
630
761
829
+199
3
CAMPANIA
621
704
771
+150
4
LAZIO
396
400
387
-9
5
SARDEGNA
267
300
312
+45
6
PUGLIA
401
331
309
-92
ITALIA
277
285
299
+22
7
EMILIA ROMAGNA
272
278
288
+16
8
SICILIA
217
261
285
+68
9
VENETO
239
258
281
+42
10
PIEMONTE
261
243
273
+12
11
TOSCANA
200
232
246
+46
12
ABRUZZO
212
207
217
+5
13
LIGURIA
180
170
196
+16
14
UMBRIA
148
162
161
+13
15
MARCHE
146
124
157
+11
16
BASILICATA
188
140
140
-48
17
VALLE D’AOSTA
118
120
113
-5
18
LOMBARDIA
125
116
112
-13
19
FRIULI VENEZIA GIULIA
79
84
94
+15
20
TRENTINO ALTO ADIGE
97
91
92
-5


(*) Tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche con riferimento alle forniture di dispositivi medici.
(**) Numero dei giorni che, mediamente, separano la 
data di fatturazione dalla data di incasso,
ovvero indica il tempo medio di incasso di un’impresa fornitrice.

(***) Media dei primi 11 mesi del 2011.
Elaborazione Ufficio Studi CGIA di Mestre su dati Assobiomedica